il Fatto Quotidiano, 1 aprile 2018
La legge ha abolito i rimborsi. Ma ha ridotto la trasparenza su tutte le donazioni private
Tutti sanno che i finanziamenti pubblici ai partiti non esistono più, nessuno si preoccupa che anche la trasparenza sia scomparsa. Colpa di una legge, la n. 13 del 2014, impastata di fretta nel dicembre del 2013 dal governo di Enrico Letta e approvata in Parlamento con Matteo Renzi appena sbarcato a Palazzo Chigi.
Per un incrocio di norme, il testo consente di schermare l’identità del donatore fino a un massimo di 100.000 euro, che sale a 200.000 per le società. Il problema è la privacy. Funziona così: il tesoriere del partito, che riceve il contributo, invia alla Camera dei deputati la notifica comunicando la cifra, ma non il nominativo del sostenitore. Con la stessa formula, poi, riporta la cifra e non il nominativo nei bilanci pubblici del partito. Questa si chiama “dichiarazione unilaterale”, per l’appunto, un tempo a Montecitorio – secondo la legge dell’81 – si registravano soltanto le “dichiarazioni congiunte” per elezioni nazionali, regionali.
Nel bilancio del Pd, infatti, leggiamo: “Si segnala che, ai sensi della legge, sono stati inseriti nell’elenco che segue soltanto i nominativi dei soggetti eroganti che, ad oggi, hanno rilasciato il facoltativo consenso previsto dal codice in materia di protezione dei dati personali”. Sul Fatto a lungo abbiamo denunciato la stortura della riforma. L’Autorità della Privacy, un paio di anni fa, ci rispose negando responsabilità dirette e indicando i ministeri (cioè il governo) quali responsabili della mancata sicurezza anche sui passaggi di denaro: la legge, ci segnalarono dall’Autorità, richiedeva alcuni decreti attuativi per essere applicata appieno. Questi decreti ministeriali, però, non sono mai arrivati e non sono marginali, ma fra i più delicati: riguardano l’effettivo limite a 100.000 euro dei contribuiti privati e il controllo sui mezzi di pagamento diversi dal contante.
La vecchia legge, poi, obbligava alla trasparenza per le donazioni superiori ai 5.000 euro (e non la vietava, di certo, per quelle inferiori). Con il finanziamento pubblico, però, il denaro privato o arrivava col nero – cioè tramite tangenti – o si palesava con grossi contribuiti di aziende storicamente vicine ai partiti. Chi ha scritto la riforma non ha pensato che l’utilizzo massiccio delle donazioni private avrebbe creato un problema di trasparenza. Oppure, se ci ha pensato, l’ha sottovaluto. I partiti tradizionali – cioè quelli con alte spese per sedi, iniziative, manifestazioni, dipendenti – hanno tentato di allestire forme alternative di finanziamento.
In due di circostanze, per esempio, il Pd di Renzi ha organizzato delle cene a pagamento con posti al tavolo concessi per 1.000 euro, abbondantemente sotto la soglia. In una delle cene, spendendone 5.000 (poi restituiti dal Nazareno) s’attovagliò pure una delegazione della cooperativa 29 Giugno di Salvatore Buzzi, poi arrestato nell’inchiesta Mafia Capitale. Nel Regno Unito, invece, sul sito della “Electoral Commission”, si riferiscono di tutti i donatori sopra le 1.000 sterline l’anno. L’abolizione del finanziamento pubblico, già ribattezzato “rimborso” dopo il referendum del ’93 sorto dagli scandali di Mani Pulite, è stata graduale ed è effettiva dal 2017. Nel frattempo, i partiti hanno delegato la raccolta del denaro alle fondazioni (dove i controlli praticamente non esistono).