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 2018  aprile 01 Domenica calendario

Libri, pallone & bar. Una vita da Arpino

Giovanni, quello del titolo, che difende una puttana, Giovanni che picchia le donne, Giovanni non è un eroe positivo. Randagio, semmai, precorrendo di dieci anni il ritorno al picaresco, proseguito con Domingo il favoloso. È come se Arpino diffidasse dall’eroe senza macchia e senza paura. Nessuno è senza macchia e tutti hanno paura, solo che qualcuno la maschera meglio. Giovanni diventa violento quando beve. Cioè tutti i giorni. Ha qualche libro in camera. Del suo passato non ama parlare. Si definisce reduce, ma da che, da dove non ricorda. È in sintonia con la precarietà che lo circonda. Nella rilettura, me lo sono goduto di più stavolta, il libro. Vittorini non era un lettore di bocca buona, prese pure qualche cantonata, ma con questo esordio arpiniano ebbe una felice intuizione: non toccare niente, né una pagina né una sola parola. Stamparlo così com’era, scritto a mano in una ventina di giorni in una stanzuccia di via Prè. Quando il libro uscì, ma anche oggi, ci si può chiedere: com’è possibile che l’abbia scritto uno di ventitré anni?
Com’è possibile si riferisce al ritmo narrativo, tenuto sempre alto, alla felicità di pennellate estranee alle nature morte. Ad Arpino interessano le nature vive, uomini e donne con le loro facce, le loro storie, i loro destini. Nei vicoli di Genova par di vederlo girare come un cane da tartufi, imbevendosi di odori. Vede la città dei poveri, quelli a cui basta buttar giù qualcosa di solido (anche pane e fave, quasi un lusso, anche una gatta) e molto di liquido (vino gramo, grappa, cognac, grigioverde). Ladri e contrabbandieri. Gli osti che fanno credito. Quelli che invece no. Le puttane. I marinai. Gli amici, quelli con cui divedere l’ultima sigaretta, l’ultima bottiglia, e poi si vedrà. I camerieri. C’è un meraviglioso, surreale giro di domande e risposte tra Giovanni-Bello, alla ricerca di una sbronza dura, e un cameriere. “Tu hai paura dell’avvenire?” chiede Bello. “Non lo so, signore. Ho sempre fatto il cameriere”. “Sei mai stato innamorato?”. “No, ho sempre fatto il cameriere”.
È un libro in cui ci sono più domande che risposte. Difficile darne, in quel primo dopoguerra fatto di ferite e speranze, di rimettersi in piedi, di una ricerca della felicità, quella felicità richiamata nel titolo, ed era anche voglia di sicurezza, di un piatto caldo, di un semplicissimo star bene. A proposito, “Io non sto bene in nessun posto”, scrisse Arpino. Stava bene, ai miei occhi almeno, nelle tribune- stampa di tanti stadi di calcio, in Italia e in Europa, e di quello olimpico a Montreal, nel ’76. Per noi dello sport il suo arrivo fu un brivido piacevole. Avevamo già Brera, ma Arpino aveva compiuto il percorso inverso: prima famoso narratore poi cronista sportivo.
Per questo era interessante non dico studiarlo ( anche questo, se possibile, sì grazie) ma vedere come si sarebbe comportato. Al mondiale del ’ 74, come tutti gli altri. Niente arie da prima donna, puntuale alla partenza della navetta. Quasi tutti i giornalisti erano isolati in un motel fuori Stoccarda, tra gli svincoli di due autostrade. Per non perdere tempo nel traffico molti cenavano lì, anche Arpino. Poi si sedeva appoggiato al bancone del bar e andava di whisky. Io mi sedevo da un’altra parte, un po’ per rispetto un po’ perché sapevo che quando uno, al banco, tiene i gomiti piuttosto larghi, è segno che preferisce stare da solo. Era alto, direi imponente, preferiva le camicie con tante tasche e aveva un impermeabile bianco che lo avvicinava a Robert Mitchum-Philip Marlowe.
Occhiali da sole, spesso tenuti alti sulla fronte. Fumava tantissimo ( Kent, se ricordo bene) in un bocchino di avorio e madreperla. Condannato da quel fumo, avrebbe accettato il ruolo senza lamentarsi: “Io ho quel che ho fumato”.
A Montreal in sala- stampa mi lamentavo del caffè e Arpino disse: “Ho trovato un posto dove lo fanno come in Italia.
Se vuoi ci andiamo insieme, domattina”. E come no. “Ma dovrai abituarti a questo”, e mi passò una bustina di fiammiferi, foto di Mussolini davanti e dietro. All’ora combinata mi trovai sotto il suo albergo. Taxi? “No, carrozza e cavalli. Botta di vita”. E dove sono? “Girato l’angolo”. Non avevo mai visto una carrozza per le vie di Montreal, 1-0 per lui. E in carrozza andammo in un bar di Little Italy, foderato di foto, di quadri, di busti (sempre Benito), bevemmo un ottimo caffè o forse due, già che c’eravamo, e al ritorno lui parlò di Rimbaud e io rimasi ad ascoltarlo come uno scolaretto. Nel bar gli fecero domande sul campionato, lui svicolò con garbato fastidio. “Non sono un tifoso”. Tifo, spiegò, in greco significa nebbia e da testimone dei tempi, tale si considerava, la nebbia era sconsigliata. Fosse stato tifoso, non avrebbe scritto, lui simpatizzante juventino, la cosa più bella mai scritta sul Torino caduto a Superga, la poesia in dialetto Me grand Turin. C’era nebbia il sabato pomeriggio che lo seppellirono a Bra, Giovanni. Un addio in punta di piedi. Nel suo stile.