la Repubblica, 1 aprile 2018
Mondo, maestro del calcio senza mai salire in cattedra
In A, le tre squadre del cuore di Mondonico hanno vinto: 8 gol fatti, 0 subiti. L’ho giudicato un bel segnale, un saluto calcistico. Ai funerali c’erano anche i tifosi coi fumogeni, certe cose non arriverò mai a capirle. Però m’è venuta in mente una camminata lungo l’Adda, trent’anni fa, una lunga intervista riannodata più volte perché irrituale. Camminare, parlare, mangiare (partendo da pane e salame ovviamente), giocare a scopa. In quella stagione (l’Atalanta in B ma tra le grandi d’Europa) l’allenatore e gli ultrà c’era un appuntamento fisso, a base di Atalanta, pizza e birra. I capi ultrà allora si chiamavano Gigi il rosso e Baffo, in curva c’era ancora qualche immagine del Che. «Mondo, tu così li giustifichi». «No, io così li conosco, ci parlo. Abbiamo avuto contestazioni pesanti, sassate, giocatori accusati di non amare la maglia. No ho mai criminalizzato gli ultrà, sono portatori di un amore estremo che può anche diventare odio, lo so. Ma è amore, ci vuole amore per andare in pullman da Bergamo a Lisbona senza chiedere una lira alla società.
Guarda, io ho vissuto il ’68 come può viverlo un calciatore. Poi passano gli anni e realizzi che Marx è morto, Lenin è morto e Mao è una mezza fregatura. Di quegli anni rimpiango solo il senso di solidarietà e la voglia di giustizia. E pensi che per un ragazzo di Bergamo o delle valli l’Atalanta è più vicina e reale del Vietnam. Be’, io questi ragazzi non li isolo, vado a parlarci, e solo parlandoci puoi ottenere, forse, che l’amore estremo rimanga amore, che il vino rosso non diventi aceto».
Trattoria del Ponte si chiamava il locale dei suoi genitori. Da ragazzino lui dava una mano portando i piatti ai tavoli, da calciatore professionista anche. Un dettaglio per capire che tipo era. Molti clienti dicevano: «Mai visto un calciatore che fa il cameriere. Sarà suo fratello». Non aveva fratelli. La definizione di calcio pane e salame, riferita al suo gioco, gli faceva molto piacere. Mi sono commosso, mentre guardavo in tv i servizi da Rivolta d’Adda, sentendo un anziano signore, un compaesano, che così ricordava Mondonico: «Faceva un buonissimo salame». Faceva altre buonissime cose: non si prendeva troppo sul serio, idem per i colleghi assunti nel Gotha della categoria. Aveva senso pratico, un umorismo sottile, pensieri profondi e le parole per dirli. «Il Toro è la speranza in un mondo migliore». Nove parole che valgono più di un discorso.
Inconsciamente aveva scelto di stare dalla parte delle minoranze da bambino, diventando tifoso della Fiorentina «perché non ce n’era uno in tutto il paese».
Poi, stava da quella parte per vocazione. Tra cowboy e indiani capiterà di vincere anche agli indiani. Sì, e per loro Little Big Horn è un giorno di festa. Se vincono i cowboy, si può al massimo alzare una sedia. E c’era qualche sedia alzata, ai funerali, e una appesa a una finestra. In una delle più belle e lancinanti notti da Toro, quando merita di vincere ma tutto e tutti gli giocano contro, quella sedia alzata valeva la stampella di Enrico Toti, la locomotiva di Guccini. Era il grido dell’onesto che si sente derubato.
Onesto lo è sempre stato, nelle dichiarazioni post- partita, nel riconoscere la superiorità degli avversari, nell’analisi delle partite e anche nella valutazione della sua carriera. «Non mi sarebbe piaciuto allenare uno come me. Avevo la tecnica e non il fisico. A 20 anni ero ancora all’oratorio, a 23 professionista, ma non dentro di me. Dicevano che avevo troppe pause, invece erano paure. Non ero sicuro di me, mi tremavano le gambe prima di ogni partita.
Non ho chiesto aiuto a nessuno, non usava.
Dicevano che ero individualista, ma ero solo chiuso in me stesso. Dovevo crescere, ma ho ignorato gli ostacoli pensando che fosse un modo per superarli.
Scaricavo su altri le mie responsabilità. Pensavo di essere un poeta del pallone, poi ho capito che il massimo della fantasia è essere semplicemente se stessi, è non mascherarsi mai». Non l’ha fatto. Ha continuato a mostrare la stessa faccia ottocentesca ( da carbonaro), o anche più indietro ( da spadaccino, con un che di cardinalesco: poteva essere Richelieu e d’Artagnan). E anche quando stava male, malissimo, ci teneva a non perdere un allenamento della sua ultima squadra, l’oratorio di Rivolta ( sarà per questo che l’hanno battezzati Emiliano?) come alfa e come omega. Una squadra di tossici, di alcolisti, di sbandati, di lasciati indietro, di emarginati, di indiani nelle riserve, una squadra di persone cui ridare un infinitesimo gusto della vita, sia pure pigliando a calci un pallone, ma soprattutto con un po’ d’attenzione, di calore umano. I maestri migliori, col tempo lo si impara, sono quelli che non salgono in cattedra. Mondonico è stato uno di questi maestri e non è tardi per dirlo. Un altro hombre vertical che se ne va.
Gli sia lieve la terra.