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 2018  aprile 01 Domenica calendario

In morte di Luigi De Filippo

Emilia Costantini per il Corriere della Sera
Roma Diceva: «In palcoscenico gli anni non pesano, semmai pesano fuori dal palcoscenico, quando si fa sentire qualche acciacco. Ma appena si alza il sipario, tutto sparisce. Il teatro è una cura per l’età, ma è anche la malattia, una specie di droga». E infatti Luigi De Filippo, ultimo erede di una grande dinastia di attori, si stava preparando a un nuovo debutto, ma ieri mattina è calato definitivamente il sipario, si è spento serenamente nella sua casa romana: il prossimo agosto avrebbe compiuto 88 anni. Domani, dalle 15 alle 21, sarà allestita la camera ardente al Teatro Parioli, il palcoscenico di cui era direttore artistico dal 2011. Il 3 aprile si svolgeranno i funerali nella Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo.
Era figlio di Peppino e nipote di Eduardo e Titina De Filippo. Amava raccontare di essere nato a Napoli «in una casa che non esiste più, perché distrutta dai bombardamenti del 1943». E quando la madre ebbe le doglie, il padre non disponeva neanche dei soldi per pagare l’ostetrica. Una lunga storia, quella della gloriosa «famiglia reale del teatro italiano» cui apparteneva, il cui capostipite era Eduardo Scarpetta, suo nonno, che però non riconobbe mai i tre figli naturali, avuti da Luisa De Filippo: «In casa era un argomento tabù e una perenne ombra di tristezza appannò sempre la vicenda – diceva Luigi con un po’ di rammarico —. Io seppi che mio padre era figlio di nn a 9 anni, curiosando tra le sue scartoffie e lì per lì non capivo cosa significasse. Conobbi la verità molto tempo dopo e solo quando ormai ero un adulto affrontai l’argomento: papà mi esternò l’amarezza di quel genitore assente, che loro erano costretti a chiamare zio, guardandolo con soggezione, perché Scarpetta era un uomo freddo, egoista».
Luigi, pur recitando sin da bambino con qualche comparsata, aveva ufficialmente debuttato a 21 anni in Filumena Marturano di Eduardo, nel ruolo di Umberto, uno dei tre figli naturali della protagonista: «La commedia – teneva a sottolineare l’attore – dove mio zio rappresentò proprio la vicenda di sua madre». Poi una carriera fra cinema, televisione ma soprattutto teatro, la sua vera passione, «perché il teatro combatte l’ignoranza e recupera i sentimenti». E il momento di massima esaltazione fu quando riuscì a rappresentare le sue commedie, «essere accettato finalmente come autore». La sua ultima apparizione in scena risale al gennaio scorso, protagonista di Natale in casa Cupiello, capolavoro eduardiano, e il prossimo impegno era previsto a metà aprile con un suo testo, De Filippo racconta De Filippo, narrazione divertente e appassionata della sua onorata stirpe familiare, in cui avrebbe accennato probabilmente anche ai dissapori che, molti anni prima, avevano causato la rottura di un sodalizio artistico: «Papà e zio erano dotati di caratteri forti, indomabili, molto diversi tra loro, talmente diversi che spesso mi sono chiesto come avessero mai potuto andare d’accordo, mi meravigliavo che fossero durati tanto».
Una lunga storia e una pesante eredità artistica che, negli ultimi tempi, Luigi aveva portato avanti da solo, essendo scomparso nel 2015 anche suo cugino Luca, molto più giovane di lui: «Non abbiamo mai recitato insieme – diceva —. Qualcuno ha provato a proporcelo, però abbiamo sempre rifiutato. Non ci sembrava opportuno rievocare i fantasmi di due artisti come Peppino ed Eduardo, dunque abbiamo fatto le nostre scelte separatamente, secondo le nostre rispettive personalità. Tuttavia, a differenza dei nostri genitori, Luca e io non abbiamo mai litigato».

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Franco Cordelli per il Corriere della Sera
Luigi De Filippo non trascurò gli amati classici, Molière o Pirandello. Gli autori prediletti furono Eduardo e il padre Peppino; e naturalmente metteva in scena le proprie commedie, ne scrisse una quantità. Ma ben altro fu il suo passo. Lo ricordo in anni lontani sul palcoscenico del teatro delle Arti in via Sicilia, a Roma. A quei tempi ero un affezionato spettatore. Mi piaceva, di Luigi, non solo lo humour napoletano, sotto i baffi; mi piaceva la fedeltà alla tradizione: la sua presenza, nel mondo che si dissolve, ricordava qualcosa che era in via di estinzione, perfino nel teatro, dove le famiglie sono da sempre state protagoniste. Oggi quasi ci si scandalizza (si finge di scandalizzarsi) se si intuisce che vi siano prossimità, affinità, parentele – come se nello pseudo-culto dell’artista ci si dovesse dimenticare che l’artigianato dell’arte è la vera base. Ecco, Luigi De Filippo fu prima di tutto un artigiano; poi, con umiltà, con grazia, fu un artista che ripercorse le orme del padre e dello zio. Mi viene in mente uno spettacolo straordinario. Concludeva l’anno 2010 all’Argentina, un palcoscenico che con lui fu avaro. Chissà se con una qualche malizia Luigi vi rappresentò proprio L’avaro di Molière. Uno spettacolo magnifico, nel quale sono indimenticabili i segnali di decadenza, i velluti impolverati, gli arredi che cadevano in pezzi, le allusioni non solo alle avarizie ma a ben altre decadenze. Essenziale, in quello spettacolo, di Luigi, la calma, il tempo lungo, il passo felpato, l’impercettibile ironia.

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Marino Niola per la Repubblica
Adesso per la scena italiana il Novecento si è veramente chiuso. Con Luigi De Filippo scompare l’ultima grande dinastia del nostro teatro, erede delle grandi famiglie della Commedia dell’Arte, gli Andreini, i Riccoboni, i Biancolelli, i Fiorillo e, più di recente, i Rame, che con i loro loro volti e gesti, tic e lapsus, lazzi e piroette hanno disegnato la fisionomia del nostro paese.
E Luigi non faceva eccezione alla regola. Si presentava sul palco con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che avevano tutti i De Filippo. Dimessi e potenti, qualche volta perfidamente prepotenti come Eduardo. O chirurgicamente caustici come Peppino. O platealmente genitoriali come Titina. O eternamente figli come Luca. O sommessamente ironici come Luigi. L’insieme di questi caratteri è il riepilogo scenico della trama morale e civile dell’Italia. Che proprio sulle tavole del teatro – tra dramma e melodramma, farsa e commedia – tutto tranne che tragedia – trova la sua espressione più compiuta.
Facendo affiorare quella verità nascosta in fondo a noi stessi, che solo la maschera riesce a portare alla luce. E che all’estero coglievano benissimo, al di là di ogni barriera linguistica. In Russia per gli spettacoli di Eduardo le file ai botteghini erano interminabili e l’accoglienza trionfale. Proprio perché il pubblico vi riconosceva la quintessenza familiare e a volte familista del Belpaese. Che sulla scena faceva cortocircuitare pubblico e privato. Sentimento e risentimento. Talento e scontento. «Noi De Filippo abbiamo portato la vita in scena», aveva detto di recente Luigi. Che parlava sempre a nome della famiglia, unita al di là delle divisioni personali, da un’identità problematica e teatrale, proprio come quella italiana. Continuamente messa in discussione ma sempre iconica, proverbiale, paradigmatica. Non a caso i detti e contraddetti di Eduardo e Peppino sono entrati nel lessico famigliare del Belpaese.
A cominciare dagli eduardiani “Gli esami non finiscono mai”, “Te piace o’ presepe?” e “Adda passà a’nuttata” che hanno illustrato profeticamente gli effetti della mutazione antropologica del Paese, ben prima di Pasolini. Fino ai tormentoni di Peppino. Come “ho detto tutto” o la “carta d’indindirindà” che del carattere nazionale mostravano il lato istrionico, farsesco, inconsapevolmente eversivo, cifrato nella prosopopea stralunata di Pappagone. O di Antonio Mazzuolo, l’integralista cattolico alle vongole delle Tentazioni del Dottor Antonio di Federico Fellini. Insomma i De Filippo hanno rappresentato le metamorfosi della società italiana, vista attraverso quel doppio concentrato d’italianità che è Napoli.

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Rodolfo Di Giammarco per la Repubblica
L’ultimo artista militante della più leggendaria famiglia teatrale italiana, Luigi De Filippo, è scomparso ieri mattina a Roma, a 87 anni per insufficienza respiratoria, dopo aver calcato la scena fino a metà gennaio in Natale in casa Cupiello di Eduardo. In termini storici, la morte di Luigi addolora anche perché, se consideriamo che il capostipite Eduardo Scarpetta cominciò a recitare a 15 anni, nel 1868, l’intero arco delle popolari vicissitudini riguardanti Scarpetta stesso, i suoi tre figli naturali ( ma con il cognome della madre) Eduardo, Peppino e Titina, con l’appendice dei soli due eredi attori Luca, nato da Eduardo, scomparso tre anni fa, e Luigi, nato da Peppino, è una parabola che a cavallo di tre secoli corrisponde a una saga precisa di 150 anni. Una dinastia che ha parlato a generazioni di spettatori. Un fenomeno che, partendo dal “patriarca” Scarpetta conobbe un destino drammatico con Eduardo, comico con Peppino e mimeticamente grottesco con Titina, finendo per imprimere nei due discendenti cugini Luca e Luigi il Dna paterno. Luigi, commediografo, attore, regista e scrittore, ventunenne, nel 1951, entra far parte della compagnia di Peppino ( già separato dal ‘44 dal fratello Eduardo), mentre lo zio lo scrittura nel cast del film Filumena Marturano. Luigi avrà sempre una spontanea intesa con Eduardo, cui mostrerà i suoi copioni, ricevendone consigli, pur procedendo sotto la tutela del padre Peppino. Finché nel 1978 Luigi fonda una propria ditta teatrale, adoperandosi in un repertorio che conosce Gogol, L’avaro di Molière, Il berretto a sonagli nella versione di Eduardo, e ovviamente titoli di Peppino come La lettera di mammà, Non è vero… ma ci credo, senza escludere La fortuna di nascere a Napoli scritta da Luigi stesso. Per capire le sorti incrociate dei due rami defilippiani c’è da tener presente che Luigi adotta tra i suoi spettacoli Miseria e nobiltà, ossia un lavoro di Scarpetta con adattamento di Eduardo, La fortuna con la effe maiuscola che risale a Eduardo e a Armando Curcio, facendo leva su due testi dello zio, Non ti pago e, appunto, Natale in casa Cupiello. «È roba di casa, fanne la regia che vuoi» gli disse Luca, parlando del Natale…, dandogli subito i diritti di rappresentazione. Luigi aveva sempre fatto da “pontiere” tra il padre e lo zio, convincendo Peppino ad assistere nel 1972 a Napoli milionaria di Eduardo. Con abbraccio pubblico dei fratelli. Una rimpatriata isolata, cui seguì l’avviso di Luigi quando il padre stava morendo, e Eduardo corse subito, e i due restarono chiusi in camera. Quel misterioso contatto, infinitamente umano, restò un segreto. E i due cugini, Luigi e Luca, si sono voluti bene senza dispendio di enfasi. Ognuno in tournée, col proprio (differente) teatro. Come è capitato alla formazione di Luca diretta ora da Carolina Rosi, anche la terza moglie di Luigi, Laura Tibaldi, annuncia che sosterrà la compagnia e il Parioli di Luigi, del quale ci resta la memoria di 50 film, sceneggiati e programmi tv, e una serie di libri.