Corriere della Sera, 1 aprile 2018
Il Faraone d’Egitto? Dopo Al Sisi è il calciatore Salah Dio, mascotte ottomane, pochi tifosi. L’ascesa della squadra pro Erdogan
Un milione di voti senza nemmeno candidarsi. Succede se ti chiami «Momo» e sei l’uomo che ha portato l’Egitto ai Mondiali con una rete segnata al 94esimo minuto nel tripudio generale.
Mentre l’elezione del Generale Al Sisi pare ormai certa, è Mohamed Salah, la vera sorpresa delle presidenziali egiziane. C’è chi parla di un centinaio di migliaia di voti, chi dice di più. E mentre ancora si tirano fuori le schede dalle urne – i risultati ufficiali arriveranno la settimana prossima – la notizia ieri ha fatto il giro del mondo: l’attaccante del Liverpool ha superato l’unico sfidante del presidente in carica, Moussa Mostafa Moussa, che di preferenze ne ha avute poco più di 680 mila.
Non male per il figlio di un venditore ambulante, nato in un villaggio di Gharbiyya, governatorato tra i più poveri, che da piccolo prendeva ogni giorno tre autobus per andare ad allenarsi al Cairo e che oggi è il capocannoniere del campionato inglese. E non male nemmeno per un ragazzo che in pochi anni s’è conquistato il soprannome di «quarta piramide d’Egitto». «La maglia con il numero 10 è la più gettonata tra i ragazzini», confermano i negozianti al Cairo.
A contribuire al mito, la testa sempre bassa, l’umiltà e la devozione. «Momo è uno di noi» hanno sempre detto gli egiziani mentre lui volava in Europa per giocare prima nella Fiorentina e poi nella Roma. Ed è questo il segreto di Salah. Non è cambiato nonostante i successi e i contratti a sei zeri. Ha donato 300 mila dollari a un fondo di sviluppo governativo e leggenda narra che ogni anno torni a casa per il Ramadan per dare da mangiare ai poveri del suo villaggio da buon musulmano. E anche ieri, dopo aver segnato la rete decisiva contro il Crystal Palace, si è inginocchiato verso la Mecca, la stessa Mecca che ha dato il nome alla sua primogenita.
Allah, il calcio e la famiglia. Non c’è spazio per altro nella vita di Momo. Dopo le due amichevoli con la Svizzera, l’attaccante è volato direttamente a Liverpool invece di passare dal Cairo per votare, segno che lui davvero della politica non si cura. Tutto diverso dal suo mentore e amico, l’ex attaccante Aboutrika esiliato dall’Egitto con l’accusa di essere un fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani.
Mettersi in testa di cambiare il mondo nel Paese di Al Sisi può costare caro. Solo una volta Salah è stato fotografato a Palazzo, per il resto è quasi sempre riuscito a dribblare il potere. Ma chissà che un giorno questo milione di voti non gli faccia cambiare idea.
U na squadra senza storia e senza tifosi (leader supremo a parte) rischia di vincere il campionato turco. Quattro anni fa non era niente. Oggi è seconda, a un punto dal blasonato Galatasaray. Si chiama Basaksehir, dal nome di un distretto alla periferia di Istanbul. Proprietari (e sponsor) sono accomunati dall’amore per il football e, soprattutto, per l’Akp, il partito che fa capo al presidente Recep Tayyip Erdogan. È «il club del governo», secondo la definizione usata dal quotidiano Financial Times.
Il presidente, Goksel Gumusdag, ripete che non è vero. Ma lui stesso è un funzionario dell’Akp, imparentato con la famiglia Erdogan. I colori dei seggiolini allo stadio (arancione, bianco e blu) sono gli stessi del partito conservatore di ispirazione islamica che in 15 anni è arrivato a confondersi con lo Stato. Prima delle partite, gli schermi mostrano immagini di caccia turchi che colpiscono obiettivi in Siria. I bambini-mascotte sono vestiti come soldati ottomani. Ai 500 ultrà capita di accogliere i giocatori con uno slogan («Dio è grande») che di rado si sente negli stadi «storici» del Paese. Gli spalti sono sempre semi-vuoti: in media, 5.500 spettatori. Lo stesso Erdogan (ex calciatore professionista) non è tra i frequentatori più assidui, anche se ha lasciato il segno indossando la maglia del Basaksehir in un incontro di beneficenza il giorno dell’inaugurazione.
Il calcio è lo sport nazionale (anche) in Turchia. Una religione laica. In anni recenti gli stadi delle Tre Grandi (Galatasaray, Besiktas e Fenerbahce) non sono stati «amici» del presidente. Anzi: nel 2013 gli ultrà hanno giocato un ruolo centrale nelle proteste anti-governative. È un caso che, giusto un anno dopo, una squadra minore come il Basaksehir abbia cominciato la scalata verso la vetta, con la benedizione di Erdogan?
C’è chi dice che la chiave del successo in campo sia politica. Aiutini, occhi di riguardo. Certo la squadra è tosta. Il motore è il «nazionale» Arda Turan, 31 anni, il più forte giocatore turco della sua generazione, arrivato in prestito dal grande Barcellona. È vero, per esempio, che i blaugrana di Messi giocano un ruolo nella contesa politica tra Catalogna e Stato centrale spagnolo. Ma in Europa, nessuna grande squadra può essere etichettata come «governativa» nella proprietà se non nell’anima. Fra i tifosi del Real Madrid c’è il premier Mariano Rajoy. In Gran Bretagna, al tempo del Labour al potere e del fortissimo Manchester United, la foto di Tony Blair in campo con Alex Ferguson poteva anche significare qualcosa di più che una semplice passione per il football. Ma il caso del Basaksehir è diverso. È la faccia sportiva di quanto il presidente Erdogan ha fatto e sta facendo per plasmare la Turchia a sua immagine e somiglianza.
Giornalisti in galera e palla al centro. Aver fatto il giocatore aiuta. Erdogan si vanta dei cinque titoli vinti con la maglia dell’Ett di cui è stato capitano negli anni Settanta. Certo, parliamo della squadra dell’azienda dei tram. Niente a che fare con la serie A. Ma vedere uno stadio dal campo permette di cogliere meglio il valore del calcio come macchina del consenso. In una vecchia intervista, lo scrittore turco Orhan Pamuk ha raccontato dell’ex dittatore portoghese Salazar, che usava il pallone come «oppio» per controllare il Paese.In Turchia, spiegava il premio Nobel una decina di anni fa, «magari fosse l’oppio del popolo: è invece una macchina per produrre nazionalismo, xenofobia e pensiero autoritario». E non importa vincere: «Il nazionalismo si nutre di catastrofi», che siano terremoti o guerre perdute o sconfitte di calcio, ricorda Pamuk.
Lo sa bene il premier ungherese, il nazionalista Viktor Orban, pure lui ossessionato dal pallone: ha continuato a giocare in una serie minore anche da premier. E ha fatto costruire uno stadio gioiello (in stile «tradizionale ungherese») a 20 metri dalla sua dacia, nel villaggio natio di Felcsút. Contro il parere della moglie: «Rovina la vista dalla cucina».
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