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 2018  aprile 03 Martedì calendario

Telecom, tra raider e politica resta il sogno della public company

MILANO La prima volta che per Telecom Italia si spese la definizione di “public company” fu nel lontano 1997 quando il premier di allora, Romano Prodi, e il ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, indicarono il modello dell’azionariato diffuso come ideale per privatizzare la società.
In realtà da quel processo ne scaturì un ibrido, avendo il Tesoro venduto a un piccolo gruppo di investitori, il famoso nocciolino duro, un pacchetto di azioni del 6,6% del capitale mentre il resto delle azioni fu effettivamente venduto sul mercato con una Opv (Offerta pubblica di vendita).
Sarebbe poi spettato a quel nocciolino, in cui la Ifil della famiglia Agnelli con lo 0,6% esercitava una funzione di guida, individuare l’altro ingrediente di base di una vera public company: un management forte e carismatico che prendesse saldamente in mano le redini della società.
Tuttavia i buoni propositi di Prodi e Ciampi non videro mai la luce per i tormentati eventi che si susseguirono di lì a poco e in particolare nei venti anni successivi. Il presidente Guido Rossi si dimise non appena si fu insediato il primo consiglio della Telecom privata, il 28 novembre 1997, in dissidio con il cda, con l’amministratore delegato Tomaso Tommasi di Vignano che assumeva su di sé troppi poteri, con il segretario del Pds Massimo D’Alema che l’aveva indicato e lo accusava di aver pilotato la formazione del nucleo stabile verso i poteri forti. Rossi era uno studioso di governance e voleva apportare alla privatizzanda Telecom nuovi meccanismi di governo delle società: «Io resto se facciamo la riforma della corporate e introduciamo nell’azienda, una volta privatizzata, meccanismi di governo più moderni», disse Rossi ad Antonio Maccanico, allora ministro delle Comunicazioni del governo Prodi. Ma il piano Telecom public company era già partito con il piede sbagliato: Rossi sbattè la porta come era suo costume fare, di lì a un anno (febbraio 1999) arrivò la scalata a debito di Roberto Colaninno che attraverso il nuovo (allora) meccanismo dell’Opa spazzò via l’azionariato diffuso insediando al vertice dell’azienda un singolo socio, l’Olivetti, con in tasca il 50% del capitale. Un’anomalia nel panorama delle aziende telefoniche internazionali che erano o possedute dallo Stato o public company. Da quel momento, fino ai giorni nostri, il tema public company è stato confinato al brusio di sottofondo, al pari di una grande incompiuta mentre sulla scena è andato in onda un altro film, quello dei grandi capitani d’industria e degli illustri banchieri che a turno hanno cercato di domare e spolpare il cavallo imbizzarrito.
Senza riuscire a imprimere stabilità all’azienda e sempre in spregio al mercato, nel senso che questi signori hanno governato l’azienda con pacchetti di azioni Telecom sempre al di sotto della soglia che avrebbe obbligato loro a lanciare una nuova Opa. E con modelli di governance molto discutibili tanto che oggi, marzo 2018, un famoso hedge fund internazionale, Elliott, con alle spalle diverse battaglie vinte da azionista-attivista, si è presentato sull’uscio della Tim con il 5% del capitale sventolando, udite udite, la bandiera della public company.
Da infilzare nel cuore del francese Vincent Bolloré, reo di gestire la società in modo “cinico ed egoistico” e privilegiando gli interessi del socio Vivendi.
Sarà la volta buona? si sono chiesti gli osservatori di lunga data di Telecom, a partire da Franco Bernabé ancora oggi nel consiglio Tim dopo averne avuto la guida per ben due volte ed essersi sempre scontrato con forze più grandi lui.
Difficile dirlo ma è lecito dubitarne anche perché alcuni elementi di anomalia, come nel 1997, sono già evidenti dopo le prime esternazioni di Elliott. Ciò che salta di più all’occhio è l’insolita alleanza tra ideologie opposte che avvolge la partita: quella iper liberista e tutta orientata al profitto tipica dei fondi attivisti e quella statalista, o forse oggi sarebbe meglio dire sovranista, del governo in carica e del governo prossimo venturo.
«Quello del fondo Elliott per Telecom è un progetto coincidente a quello che noi intendiamo fare per l’interesse pubblico ma mi pare che anche Tim fosse orientata in questo senso», ha detto senza pudore il ministro uscente dello Sviluppo Economico Carlo Calenda. E si riferiva all’obbiettivo comune che oggi può unire due fronti così diversi: quello di sfilare la rete infrastrutturale dal controllo di Telecom per riportarla nell’alveo pubblico da dove si può coltivare meglio l’interesse del Paese. E se ciò dovesse comportare la cacciata dall’Italia dell’arrogante Bolloré ancor meglio. Il risultato di questa “ibridazione” si percepisce dai nomi in lista scelti da Elliott, frutto della decisione di affidarsi a consulenti vicini al mondo della politica romano. Ma d’altronde è la stessa storia della Telecom ad affermarlo, specchio fedele del capitalismo all’italiana: la finanza senza la politica non va da nessuna parte. La famiglia Singer deve averlo capito al volo, andandosi a rileggere qualche cronaca degli ultimi vent’anni.
L’Opa di Colaninno passò anche grazie al via libera del governo D’Alema, che impedisce al Tesoro di presentarsi all’assemblea della controfferta con Deutsche Telecom. Nel maggio 2001 rientra in scena Silvio Berlusconi e due mesi dopo Tronchetti Provera e i Benetton mandano a casa la razza padana. Nella primavera 2006 secondo governo per Prodi e qualche mese dopo Tronchetti lascia sotto i colpi del piano Rovati, che vorrebbe riportare la rete in mani pubbliche. Primavera 2014, si insedia Renzi a Palazzo Chigi e d’estate Telefonica e le banche passano il testimone a Bolloré che lo raccoglie baldanzoso. E oggi, dopo 3 anni di battaglie per primeggiare nella posa della rete in fibra ottica, il ribaltone delle elezioni del 4 marzo è il segnale che un altro avvicendamento è in arrivo. Elliott l’ha fiutato e si è buttato a pesce presentando proposte di sicuro accoglimento della politica. Forse sarà la volta buona, ma per piantare veramente la bandiera della public company occorre coraggio e perseveranza sapendo che Bolloré potrebbe spegnere d’un colpo quel vento vendendo le sue azioni a Orange, cioè allo Stato francese.