la Repubblica, 3 aprile 2018
Lady Mandela, madre della nazione una vita difficile all’ombra dell’eroe
La cosa più gentile, forse la più giusta, che possiamo dire di Winnie Madikizela-Mandela, scomparsa ieri a Johannesburg all’età di 81 anni, è che è stata una vittima. Non lo è stata certo più negli ultimi 20 o 25 anni della sua vita, ricca, riverita dalle masse degli iscritti al suo partito, formalmente rispettata anche se da molti ormai aborrita. Ma Winnie è stata una vittima, una donna che ha dovuto soffrire terribilmente, negli anni in cui era una giovane donna ancora bellissima, il marito Nelson Mandela condannato all’ergastolo, rimasta sola con due bambine piccole, e dovette sostenere da sola tutta la crudeltà di un regime efferato.
In quegli anni fu a più riprese incarcerata, tenuta per un anno e mezzo in isolamento totale, probabilmente abusata dai suoi carcerieri, manipolata dalla polizia politica, poi spedita al confino nel mezzo del nulla in una casa che non aveva né acqua né luce elettrica e nemmeno, quando Winnie arrivò alla residenza che le era stata assegnata nello sperduto villaggio di Brandfort, un pavimento se non di terra battuta o un tetto per ripararla dalle intemperie. Negli anni ‘70 del secolo scorso, con il marito sepolto vivo nell’isola-prigione di Robben, il movimento di resistenza all’apartheid sbaragliato, i militanti incarcerati o in esilio, la segregazione razziale trionfante, Winnie fu l’unica voce che si levava ancora, la fiaccola rimasta accesa contro ogni avversità. Fu allora che i neri sudafricani la proclamarono “madre della nazione” e i media ne fecero un simbolo.
Ma la differenza cruciale da suo marito, quella che alla fine li separò come non erano riusciti a dividerli trent’anni vissuti lontano l’uno dall’altra, fu che mentre Nelson Mandela sarebbe uscito di prigione nel 1990 pronto a tendere la mano agli aguzzini di ieri, a riconciliare bianchi e neri per dare al Paese un futuro, Winnie tornò dieci anni prima dal confino alla sua casa di Soweto incattivita, come posseduta dalla violenza da cui era stata schiacciata, incline a fare ad altri il male che aveva dovuto subire. Si circondò di una banda di guardie del corpo, il famigerato “Mandela United Football Club”, che ai suoi ordini si rese responsabile di pestaggi ed omicidi, seminando il terrore tra la gente di Soweto. In pochi anni colei che era stata la bandiera del movimento anti-apartheid ne divenne il volto impresentabile. E il suo declino incominciò.
Era nata nel 1936 in un villaggio del sud-est del Paese, figlia di modesti insegnanti. Brava studentessa, si trasferì a Johannesburg per diplomarsi assistente sociale. Nel ’57, narra la leggenda, colui che sarebbe diventato il più famoso figlio dell’Africa la adocchiò a una fermata d’autobus e se ne innamorò perdutamente. Nelson Mandela era all’epoca un avvocato affermato e brillante, titolare del primo studio di avvocati neri del Sudafrica, dirigente politico, già sposato e padre. Winnie, di 18 anni più giovane, era di una bellezza straordinaria. Un anno dopo erano marito e moglie. Ma la loro vita coniugale fu brevissima perché Nelson divenne ben presto la “primula nera”, ricercato dalla polizia dell’apartheid, latitante, inafferrabile. Arrestato infine e condannato definitivamente nel ’63, scomparve dal mondo.
Winnie aveva 27 anni.
Per tre lunghi decenni si poterono incontrare solo nelle rare visite a lei concesse in carcere. Riapparvero insieme in pubblico l’11 febbraio 1990, mano nella mano, con l’altra mano stretta a pugno e levata in aria, quando Nelson Mandela uscì trionfante dalla sua ultima prigione. Ma già in quel momento erano lontani. Un “comitato di crisi” formato da esponenti di spicco del movimento anti-apartheid aveva dovuto occuparsi delle accuse pesantissime contro di lei, in particolare della scomparsa di un giovane militante, Stompie Moeketsi, visto per l’ultima volta tra le mani di quelli del Mandela Football Club e ritrovato cadavere. E anche del suo estremismo, i comizi nei quali aveva inneggiato alle pratiche più violente e omicide della rivolta dei ghetti neri.
Poi vennero fuori sui giornali i tradimenti del marito ormai anziano, le lettere al giovane amante cui aveva pagato viaggi con denaro prelevato dalle casse del partito. Winnie fu messa ai margini, destituita dalle cariche che occupava e Nelson, diventato capo di Stato, divorziò per poi risposarsi.
Lei accettò tutto ma non chinò la testa: alle elezioni agli organi dirigenti del partito fu sempre rieletta trionfalmente, diventata ora una capopopolo dei ghetti, figura di riferimento della sinistra interna e negli ultimi anni del populismo che è una forza temibile nella politica sudafricana. Ulteriori processi e condanne per malversazioni e truffe ai danni di povera gente avevano finito per compromettere definitivamente la sua figura pubblica. Eppure era stata una donna inerme e coraggiosa, sola eppure indomita, un’eroina.