la Repubblica, 30 marzo 2018
Il vicolo cieco delle pensioni
Caro direttore, i dati Inps arrivano puntuali a smentire le tesi sulla praticabilità di modifiche alla riforma Fornero in particolare in relazione ai pensionamenti di anzianità. Il numero dei nuovi pensionamenti previdenziali nel 2017 è aumentato del 6%, l’importo medio del 7%, la spesa annualizzata del 14% (!) rispetto al 2016. Nel solo fondo lavoratori dipendenti, considerando i nuovi pensionamenti senza quelli di invalidità e di reversibilità, si scopre che: nell’anno nel quale l’età di pensionamento legale era di 66 anni e 7 mesi, l’età effettiva media è stata di 62,5 anni; il 77% dei nuovi pensionati ha meno di 65 anni e il 30% non arriva a 60 anni; l’aumento di spesa annualizzata è di 4,7 miliardi, dei quali ben il 55% va alle pensioni di anzianità e un miliardo circa a chi ha meno di 60 anni; tra i nuovi pensionati di vecchiaia e anzianità, infatti, coloro che hanno meno di mille euro al mese sono appena il 25%.
Così il dibattito sulla legge Fornero appare un po’ lunare: tutte le stime sostanzialmente confermano quelle molto solide e documentate che la Ragioneria Generale ha fatto negli ultimi 10 mesi. Peggioramento demografico, immigrazione (troppo bassa) e crescita dalle prospettive incerte stanno determinando le condizioni di una rilevante inversione di tendenza che rimette la lancetta sull’aumento dell’incidenza della spesa pensionistica sul Pil: secondo l’ipotesi della Ragioneria ciò avverrà tra 7- 8 anni, e secondo le stime europee tra due, per poi arrivare alla “gobba” del 2035- 40, che si attesterà in ogni caso su un livello anche superiore a quello del record storico del 15,7% (2015) salendo a più del 16% ( 18,5 % nelle valutazioni europee) e superando tra soli 10 anni il livello pre riforma Fornero. Come al Monopoli, si rischia di ripartire dal via addirittura annullando gli effetti dei sacrifici dell’ultima riforma. Se dovessimo crescere meno dell’1,4% l’anno nei fatti sarebbe necessario, anche a breve, un altro intervento sulle pensioni in maturazione e in pagamento.
La situazione è tale che toglie ogni margine di manovra a interventi controriformati e in particolare quelli sulle pensioni di anzianità che è proprio il maggiore fattore di spesa pensionistica. Pensare di compensare questi costi riducendo l’assistenza o penalizzando le pensioni di vecchiaia, proprio quelle che vanno in gran parte alle donne e alle fasce più deboli del mercato del lavoro, richiama il sapore antico di “accanimento sociale” contro i più deboli, mentre pensare di utilizzare “le pensioni d’oro” ha il sapore, più moderno, dei talk show.
L’effetto delle modifiche sarebbe quello di spalancare la finestra in una mattina di gennaio ai malati di polmonite. Pazienti che si chiamano “giovani” e avrebbero meno risorse per il lavoro perché impiegate per “rottamare” generazioni crescenti di anziani, con un debito più alto ancora da saldare. A questo scenario c’è chi obietta che la colpa sarebbe della spesa assistenziale che una volta scorporata ci riconsegnerebbe una spesa previdenziale addirittura più bassa d’Europa, mentre la realtà è che l’Italia spende meno in assistenza di tutti gli altri Paesi.
La strada per avere maggiore flessibilità individuale, per non vanificare i sacrifici fatti, tutelare le pensioni, l’equità e i conti pubblici è obbligata e ha tre pilastri. Il primo è innalzare l’età effettiva, almeno fino a quella legale di vecchiaia. Il secondo è dare più risorse per produttività, investimenti e occupazione. Il terzo è rendere permanenti le innovazioni recenti che stanno già coinvolgendo decine di migliaia di persone: i redditi ponte che permettono di uscire prima dell’età di pensionamento dal mercato del lavoro senza aumentare la spesa pensionistica, cioè l’Ape sociale e la Rendita integrativa temporanea anticipata. Con l’introduzione per i giovani di una pensione di garanzia sul modello dell’integrazione al minimo.
Il welfare italiano può essere ammodernato e difeso solo se si ha il coraggio di farlo diventare più sostenibile finanziariamente, più equo. Dismettendo il metadone delle fake news, perché non si tratta di “ridurre il danno”, ma di eliminare la droga del debito e della bassa crescita.