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 2018  marzo 30 Venerdì calendario

Ecco la cellula di Amri: «Volevano una strage nella metro di Roma»

Latina, cinque arrestati e dieci indagati: sono la rete italiana del killer di Berlino L’attentato alla stazione Laurentina pianificato durante gli incontri nella moschea

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roma
Sarebbe dovuta o potuta essere un’altra, la storia di sangue di Anis Amri. E la strage del mercatino di Natale del 19 dicembre 2016, a Berlino, di cui era stato il solitario architetto e carnefice, avrebbe dovuto o potuto avere un altro set, altre vittime innocenti. E questo se soltanto, nel giugno del 2015, in un angolo del Centro islamico di via Chiascio a Latina, sette tunisini, tra cui lo stesso Amri, avessero deciso di dare corso a ciò di cui avevano ossessivamente discusso per quattro venerdì consecutivi, al termine della preghiera, nel mese del Ramadan. Un piano per colpire Roma, simbolo della cristianità. Portare morte e terrore nella linea B della metropolitana. Alla stazione Laurentina, nel quadrante ovest della città.
È questo il segreto che Amri ha portato via con sé la notte in cui è stato ucciso a Sesto San Giovanni, il 23 dicembre 2016. Un piano abortito, o comunque mai entrato nella sua fase operativa, che, per la prima volta, avrebbe dovuto imbrattare di sangue il suolo del nostro Paese in nome dello Stato Islamico, la teocrazia del Terrore proclamata a Mosul nel giugno del 2014.
Un piano a lungo discusso con coloro che ne sarebbero stati gli esecutori. Sette tunisini cresciuti nella predicazione d’odio dell’ala radicale del Centro di via Chiascio. E che, dopo la morte di Amri, cessa di essere un segreto quando decide di metterlo a verbale con la Procura di Roma e la Digos, Montassar Yaakoubi, tunisino come Amri e che con Amri ha condiviso l’incipit del “sogno italiano” ( raggiungono insieme Lampedusa su un barcone il 5 aprile del 2011) e la sua catastrofica parabola.
È il 17 luglio 2017 quando Yaakoubi, detenuto per spaccio, racconta agli inquirenti di quell’estate del 2015, della stazione Laurentina sulla linea B della metropolitana di Roma, delle riunioni in via Chiascio e di cosa diavolo sia accaduto in quel Centro. Ed è stato ieri mattina, dopo otto mesi di intercettazioni, pedinamenti e indagini condotte dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, che la partita si è chiusa. Con cinque ordinanze di custodia cautelare disposte dal gip Costantino De Robbio che smantellano quel che restava della rete di Amri. E con dieci perquisizioni che illuminano e congelano otto tunisini e due egiziani che in quella moschea si erano radicalizzati e che ora sono indagati per «istigazione a compiere attentati con finalità terroristica in Italia e all’estero».
Conviene dunque stare al racconto di Yaakoubi, alla sua confessione, così come ricostruita in un’informativa della Digos di Roma, per rendere intelligibile quel che è successo a Latina.
Anis Amri arriva in via Chiascio il 22 giugno del 2015. Dopo quattro anni di ininterrotta detenzione nelle carceri siciliane, ha appena lasciato il Cie di Caltanissetta con un foglio di via che ignora. Ce lo porta Montassar Yaakoubi. Vuole presentargli dei “fratelli tunisini” che, in quell’inizio d’estate, hanno raccolto alla lettera la propaganda d’odio con cui il portavoce dello Stato Islamico Al Adnani incita «a colpire i crociati nelle loro case». Yaakoubi, a differenza di Amri che lo è diventato in carcere, non è un radicalizzato. Ma sa che i “fratelli” di Latina possono aiutare l’amico a mettersi in contatto con chi, tra Napoli e Caserta, può fargli avere falsi documenti che gli consentano di muoversi liberamente in Italia e in Europa ( si tratta dei quattro tunisini arrestati ieri, tra loro Hakram Baazaoui gli avrebbe consegnato un passaporto e un permesso di soggiorno fasulli). In realtà, in quella moschea, da quando il Ramadan è cominciato, si fa anche dell’altro che non pratiche di solidarietà. Yaakoubi racconta infatti agli inquirenti che, in quel giugno 2015, alla fine di ogni venerdì di preghiera si ferma a discutere, con lui e Amri, un gruppo di giovani tunisini che progettano attentati. Yaakoubi li riconosce nelle fotografie che la Digos di Latina gli mostra. Tra di loro ci sono per certo, se Yaakoubi ricorda correttamente e come del resto documentano i verbali d’indagine, tale Hischam Alharabi, Mohamed Manai ( «Era il presidente del centro islamico e mi propose in un momento di difficoltà di intraprendere azioni terroristiche a Roma» ), Fathi Zribi ( «Era il collaboratore di Manai ed era incaricato di trovare ragazzi disposti a unirsi alla jihad» ), Alì Izzeddini ( «Era colui che doveva procurare le armi» ) e Monder Aouichaoui («Era con noi alle riunioni in cui si ragionava sull’idea di intraprendere azioni terroristiche e indurci alla jihad»).
A quanto pare Yaakoubi non è in grado di spiegare perché l’attentato alla linea B della metropolitana di Roma sia rimasto nello stadio della mera ideazione. Né per quali motivi, in quell’estate, oltre ad Amri che parte per la Germania, altri due “fratelli tunisini” che avevano partecipato a quelle riunioni clandestine lascino Latina per la Francia e la Germania ( le loro identità sono state comunicate agli apparati di sicurezza francesi e tedeschi).
È un fatto che la collaborazione di Yaakoubi abbia come effetto quello di consentire alla Procura di Roma di tirare il filo dell’intera rete cresciuta intorno al centro islamico di via Chiascio. Di quella rete, nel momento in cui Yaakoubi comincia a parlare, già sono stati messi in condizione di non nuocere Moez Ghidhaoui, Hicham Alharabi e Mohamed Triki Hachemi, tre tunisini espulsi tra il 2016 e il 2017 per motivi di sicurezza nazionale. Mentre nel novembre scorso viene arrestato per spaccio, prima che faccia danni, il palestinese Salem Abdel Napulsi, l’uomo che trafficava su Internet per cercare di affittare camion e pick up e scaricava le istruzioni per il montaggio e l’uso di lanciarazzi. Ieri, infine, i cinque arresti e le perquisizioni ai dieci indagati ancora in libertà. Ma ormai “bruciati”.