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 2018  marzo 30 Venerdì calendario

Una luce italiana per la Ville Lumière. Fu il fiorentino Fernando Jacopozzi a accendere nel 1925 la Tour Eiffel

Per due mesi gabbieri della Marina e acrobati dei circhi si arrampicarono sulla Torre Eiffel: fino in cima, in bilico sui piloni metallici, mentre sotto la città fremeva, per collocare 25 mila lampadine. Correva il 1925. E bisognava fare in fretta, si sarebbe illuminato per la prima volta il simbolo di Parigi, per l’Esposizione internazionale delle Arti decorative. Ebbe l’idea Fernando Jacopozzi, fiorentino di nascita, una pazzia secondo i più. Ma trovò qualcuno per finanziarla, André Citroën, visionario della pubblicità: il suo cognome lampeggiante, sinonimo di auto all’avanguardia, apparve d’un tratto lungo tutta la Torre. Che da allora continuò a illuminarsi ogni sera.

Negli anni successivi, tanti altri luoghi di culto, da Notre-Dame agli Champs-Elysées, il Moulin Rouge o l’Opéra, si riempirono dei giochi di luce ideati da Jacopozzi, che da queste parti si faceva chiamare Fernand. Primo di sette figli, era sbarcato dalla Toscana verso il 1900. Da autodidatta diventò «ingénieur électricien», mago delle luci, lavorando a lungo per la casa Paz-Silva, specializzata in insegne luminose di negozi e grandi magazzini. Erano gli anni scintillanti della Belle Époque. «Se Parigi è diventata famosa nel mondo come Ville Lumière, si deve a un italiano, che amava così tanto questa città», racconta Véronique Tessier-Huort, sua nipote.
Lei, in realtà, non ha mai conosciuto il nonno. Fernand morì improvvisamente, per una banale operazione chirurgica, il 6 febbraio 1932, a 54 anni. «Le luci di Parigi si spensero per tre notti in suo onore», sottolinea Véronique. Da allora cadde nell’oblio. Ma adesso, con un libro e una mostra, si sta riscoprendo il personaggio. Il primo è stato scritto da Fabien Sabatés (Jacopozzi, le magicien de la lumière, edizioni Douin), con il sostegno di Véronique, che nella casa di campagna ha ritrovato materiale inedito, anche le bobine di film che ritraggono le illuminazioni animate di Jacopozzi: come quella stupenda sul tetto della Samaritaine, del 1931, intitolata I pellerossa nella giungla, con un indiano che lanciava una freccia da un palazzo all’altro. «Era un artista: amava il bello, in questo era molto italiano», continua la nipote. «Veniva pagato dai privati, ma per i luoghi pubblici non si faceva retribuire, tanto era appassionato: un personaggio generoso ed esuberante».
Se i francesi gli dettero così tanta fiducia, si deve anche a un’altra storia, a lungo rimasta segreto di Stato. Qui entra in ballo un fotografo italiano, il livornese Francesco Levy, 28 anni. «Nel 1917, in piena Grande guerra», racconta, «diventò operativo un bombardiere tedesco, il Gotha, che riusciva a raggiungere Parigi. I piloti non avevano radar, ma agivano di notte, seguendo le luci, soprattutto quelle delle linee ferroviarie. Il governo francese affidò a Jacopozzi un progetto: creare una finta Parigi a Nord di quella vera, che distraesse gli aerei nemici». Bisognava costruire strutture di legno dipinto a immagine dei luoghi principali della capitale, ma soprattutto occorreva agire abilmente con le luci, per ingannare il nemico, che si ritrovava a tirare bombe su una città fantasma. Jacopozzi ideò anche una struttura mobile su due chilometri, con le luci proiettate orizzontalmente, che dall’alto dovevano sembrare un treno. Costruì solo una parte della sua falsa Parigi (la Gare de l’Est, ad esempio, una delle principali stazioni). E alla fine non fu mai davvero utilizzata, perché la guerra terminò. Ma i francesi, riconoscenti, lo insignirono della Legion d’Onore.
Levy ha lavorato su questa storia dimenticata. «Mi piace sempre orbitare attorno al passato e alla memoria, giocando ai limiti della metafisica. Stavolta mi sono immedesimato in Jacopozzi». Lui aveva perlustrato la città per ideare la sua finta Parigi. E Francesco ha fatto altrettanto con la macchina fotografica. Ne sono venute fuori immagini delle Tuileries di oggi, ma che sembrano dell’epoca della Grande guerra. E dei ponti sulla Senna, perché Jacopozzi voleva ritrovare all’esterno della città un’ansa simile a quella che il fiume disegna nel centro. Le foto di Levy sono esposte da oggi all’Istituto italiano di cultura a Parigi, fino al 12 aprile. Jacopozzi riuscì a scovare un’ansa «giusta» della Senna vicino a Maisons-Laffitte, a Nord-Ovest della città. «Ci sono andato», conclude Francesco. «Sapevo che non era rimasto nulla delle strutture che lui aveva edificato. Ma ero alla ricerca di suggestioni, in quel bosco sulla riva della Senna». Tra riflessi di luci ingannevoli, perse nella memoria.