Corriere della Sera, 25 marzo 2018
Le ultime cene dei pittori
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È il Cenacolo più studiato e copiato. Tra le infinite interpretazioni colpisce quella di Goethe, che nel 1788, sulla strada del suo ritorno a Weimar, vide il capolavoro di Leonardo in Santa Maria delle Grazie (cenacolo.it). Il poeta tedesco rimase impressionato dal coinvolgimento emotivo dei commensali: «Il turbamento tramite il quale l’artista scuote la tranquilla sacralità della tavolata serale nasce dalle parole del Maestro: C’è uno tra voi che mi tradirà! Le ha pronunciate, l’intero gruppo entra in agitazione; ma lui china la testa, lo sguardo abbassato; la postura, il movimento delle braccia, delle mani, tutto ripete con celestiale rassegnazione le parole terribili, le rafforza il silenzio stesso: Sì, in verità vi dico. C’è uno tra voi che mi tradirà». E rivela l’espediente usato da Leonardo per animare il dipinto: il movimento delle mani, che esprime i sentimenti, le passioni, perfino i pensieri dei tredici personaggi «dall’adolescente al vegliardo: uno pacatamente rassegnato, uno spaventato, undici eccitati e turbati dal pensiero di un tradimento in seno alla famiglia»
Verso la fine del 1100 apparvero Cenacoli con i commensali in piedi. Un esempio straordinario si trova nel duomo di Modena (duomodimodena.it), dove l’Ultima cena è scolpita nel marmo del pontile che separa la navata centrale dal presbiterio rialzato. La realizzarono, tra il 1209 ed il 1225, i maestri campionesi, che erano scesi dalla zona dei laghi lombardi, guidati da Anselmo da Campione, per lavorare in varie regioni della penisola. Gli apostoli qui sono in piedi su un solo lato della lunga tavola coperta da una candida tovaglia a pieghe. Gesù è al centro tra di loro e sporge il braccio, passandolo sopra Giovanni che dorme con il capo reclinato sul suo petto, per offrire a Giuda il famoso boccone rivelatore del tradimento. Soltanto Simone Zelota, che chiude la tavolata sul lato corto di destra, è seduto su uno scranno con braccioli, all’uso germanico. Lo identifichiamo perché il suo nome è scritto in alto, come i nomi degli altri apostoli che segnano i rispettivi posti. Simone, essendo il capo dei Magi, era riconosciuto per condizione sociale il più importante degli apostoli.
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L’Ultima Cena dipinta nel Trecento da Pietro Lorenzetti sui muri della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi (sanfrancescoassisi.org) è una delle pochissime che, accanto alla stanza dove Gesù è seduto a tavola insieme agli apostoli, mostra anche la cucina. A sinistra del cenacolo, divisa da una parete, c’è la stanza col focolare acceso. Davanti al fuoco, un inserviente che pulisce i piatti con un canovaccio, un cane che mangia gli avanzi, un gatto che sonnecchia. Sullo sfondo la credenza con le stoviglie. Dietro il garzone, un uomo in piedi indica col pollice sinistro i commensali, come a dire di accelerare il servizio. Due servitori, che dai vestiti simili a quelli degli apostoli devono essere di rango superiore, discutono in piedi nel vano della porta che mette in comunicazione i due locali. Anche i gatti in cucina sono una novità. Nell’iconografia del Cenacolo, si trovano quasi sempre ai piedi della tavola, accanto a Giuda. Perché nella simbologia cristiana il gatto impersona il tradimento, la lussuria, il demonio.
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Siedono molto stretti gli apostoli intorno al tavolo nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (ravennamosaici.it). L’anomalia si spiega col fatto che la Cena si svolge attorno a uno «stibadium», la mensa usata dagli antichi romani in alternativa al triclinio. Anziché tre letti intorno a una tavola quadrata, come accadeva nel triclinio, lo «stibadium» aveva tavola e letto a forma di un arco di cerchio: benché a rigore potesse ospitare fino a nove persone, di solito non ne accoglieva più di sette o otto, figuriamoci tredici. Se gli invitati erano più di nove bisognava disporre altri «stibadia». Cristo e Giuda sono seduti alle due estremità, occupate, anche tra i Romani, dagli ospiti più importanti. L’immagine ravennate è tra le più antiche raffigurazioni (V-VI sec.) del banchetto pasquale di Gesù, insieme a quelle del Codex Purpureus di Rossano Calabro (Cs), del Dittico delle cinque parti nel Museo del Duomo di Milano, della Pala d’oro che rifulge dietro l’altare maggiore nella basilica di San Marco di Venezia
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Girolamo Romanino, nella pala d’altare del Duomo di Montichiari, in provincia di Brescia, illustrò le buone maniere da seguire a tavola. Siamo nel 1542. I due apostoli seduti in primo piano e quello in piedi accanto a Pietro hanno dispiegato il tovagliolo sulla spalla sinistra. Un dettaglio curioso e insolito nei dipinti del Cinquecento. In realtà una finezza da galateo, raccomandata una decina di anni prima da Erasmo da Rotterdam nel libro De civilitate morum puerilium, dove si prescrive: «Se ti vien dato un tovagliolo, devi poggiarlo sull’omero o sul braccio sinistro». Il filosofo raccomanda inoltre di tener puliti cucchiaio e coltello, che all’epoca solo qualche commensale usava, portandoseli da casa chiusi in un cofanetto. A chi non era dotato di posate, suggerisce di mangiare facendo uso di tre dita soltanto, che non andranno leccate o pulite sul vestito. Deplora l’abitudine di offrire a un altro commensale bocconi già masticati, l’usanza di grattarsi, il giocare con il coltello e l’usarlo per pulirsi le unghie.
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Forse è la più antica, ma non si sa da dove proviene, l’Ultima Cena del Codex Purpureus, un evangeliario greco miniato oggi conservato nel museo diocesano di Rossano Calabro (Cs), (artesacrarossano.it). Dei quattrocento fogli originali, in pergamena tinta di porpora, ne restano centottantotto. Contengono l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, redatti in grafia maiuscola biblica o greca onciale, con caratteri in oro e argento. Delle quindici miniature, una dozzina raffigurano la vita di Cristo e tra queste compare l’Ultima Cena. Il Codex fu segnalato per la prima volta nel 1846 dal giornalista Cesare Malpica e studiato nel 1879 dai tedeschi Oscar von Gebhardt e Adolf Harnack, che lo fecero conoscere il tutto il mondo. Ma non riuscirono a stabilirne con sicurezza la data, il luogo in cui fu realizzato e l’identità di chi lo portò a Rossano. Oggi la maggior parte degli studiosi ipotizzano che sia stato creato tra il IV e il VII secolo in Siria, forse ad Antiochia, e portato in Calabria durante l’ondata migratoria dei monaci greco-orientali in fuga dal primo iconoclasmo bizantino.
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Tra i pittori chiamati nel 1480 da Sisto IV ad affrescare le pareti laterali della Sistina (museivaticani.va), c’era Cosimo Rosselli, definito dal Vasari «non però eccellente e raro». Insomma non all’altezza di artisti come il Ghirlandaio, il Perugino, Sandro Botticelli, Luca Signorelli, che lo affiancavano nell’impresa di raccontare con i colori le Storie di Cristo e di Mosè. A Cosimo toccò la scena dell’Ultima Cena. I colleghi lo prendevano in giro perché non era capace di disegnare correttamente l’anatomia dei personaggi. Suppliva a questa mancanza con l’uso abbondante dell’oro, l’applicazione sapiente dei pigmenti, la meticolosità nel riprodurre certi particolari come la trama a losanghe della tovaglia. Il papa aveva promesso un premio, oltre il pagamento, al pittore che a suo giudizio avesse lavorato meglio. Con stupore di tutti, dichiarò vincitore Rosselli perché «con molto oro illuminò la storia». E ingiunse agli altri di aggiungere quell’oro, giudicato ormai arcaico, anche ai loro affreschi.
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Il telero con l’Ultima Cena, sei metri per tredici, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (gallerieaccademia.org), fu commissionato dal frate Andrea de’ Buoni per il convento dei santi Giovanni e Paolo. L’artista consegnò il dipinto il 20 aprile del 1573, ma il 18 luglio fu convocato dal tribunale dell’Inquisizione. L’accusa: interpretazione poco rispettosa del racconto evangelico. Gli veniva contestata la tavola imbandita, che riflette la magnificenza dei banchetti offerti dai signori del Rinascimento. E in particolare: i cani, un piccolo moro che accarezza un pappagallo sul braccio di un nano, un servo a cui esce il sangue dal naso, un commensale che si pulisce i denti con la forchetta. E poi «imbriachi, Thodeschi, buffoni et simili scurrilità».Veronese si difese citando Michelangelo, che nella Cappella Sistina «con poca riverenza» aveva dipinto nuda tutta la corte celeste. Gli fu ordinato di correggere il quadro entro tre mesi, a proprie spese. Risolse il problema cambiando il titolo, e scrivendolo a grandi lettere sulla cornice dei pilastri: Convito in casa di Levi.
Andy Warhol conservava sul comodino una cartolina con il Cenacolo vinciano, che gli aveva regalato la madre quando era bambino. Ma soltanto due anni prima di morire cominciò a lavorare alle sue Last Supper. Giovedì 25 aprile 1985 scrisse nei Diari: «Sto cercando di trovare un altro negozio dove vendano la scultura de L’ultima cena, quella di circa 45 cm la vendono in uno dei negozi importanti della Fifth, vicino a Lord and Taylor, richiedono molto, circa 2500$. Così sto cercando di trovarla più a buon mercato in Times Square». Il modellino che Warhol cercava fu ritrovato nel suo studio dopo la morte: misurava 10,8 centimetri per 8,6. Lo riprodusse in una serie di polaroid in bianco e nero, che trasferì in sequenza nelle serigrafie delle grandi Last Supper, in un centinaio di variazioni. La Sixty Last Suppers, (sessanta volte l’originale di Leonardo) è stata venduta nel novembre 2017 da Christie’s Ne York (dopo essere passata dal Museo del Novecento di Milano) per 60.875.000 dollari.