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 2018  marzo 25 Domenica calendario

Le ultime cene dei pittori

Una tovaglia invasa dai gamberi: si trova nella chiesa di Santo Stefano a Carisolo, in provincia di Trento, affrescata nel Cinquecento dai pittori della famiglia Baschenis, di origine bergamasca ma attivi nelle valli sotto le Alpi, dal lago Maggiore al Piave. I Baschenis, che si trasmettevano il mestiere di padre in figlio, dipinsero per anni, in oltre centocinquanta chiesette di questi territori, Cenacoli con gamberi di fiume. I gamberi di fiume erano cibo quotidiano per gli abitanti di quei territori e anche uno dei piatti più frequenti in tempo di Quaresima. Per il rinnovo periodico del carapace, la corazza esterna che cotta diventa rossa, erano simbolo di morte e resurrezione. Poiché camminano a ritroso, deviando dalla retta via, erano anche simbolo di eresia: rappresentavano il dissenso teologico sulla presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nelle forme del pane e del vino, codificato dalla dottrina protestante. Alcuni studiosi collegano la presenza dei gamberi (cibo impuro per gli ebrei) alla propaganda antiebraica molto attiva in quegli anni.

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Sembra un’astronave quella in cui Salvador Dalí ambientò nel 1955 la sua Ultima Cena, oggi alla National Gallery di Washington (nga.gov). In realtà si tratta di un dodecaedro, solido geometrico che secondo Platone simboleggia la perfezione dell’universo, perché le dodici facce rimandano alle dodici costellazioni dello  Zodiaco e perché contiene in maniera naturale gli altri quattro solidi, che erano associati ai quattro elementi. Secondo il filosofo greco, nel dodecaedro sono infatti compresi il tetraedro che generò il fuoco, l’ottaedro che generò l’aria, l’icosaedro che generò l’acqua, il cubo che generò la terra. In Dalí le dodici facce del solido corrispondono ai dodici apostoli, i cui volti non si vedono, perché chini in preghiera. Soltanto il volto di Gesù è visibile e ricalca le sembianze del viso di Gala, la moglie-musa di Dalí, da lui ritratta infinite volte. Per avere osato sovrapporla a Cristo fu accusato da molti di blasfemia. Il paesaggio sullo sfondo è lo stesso che il pittore catalano vedeva dalla finestra di casa sua, affacciata sulla baia di Port Lligat.

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In una decina di anni, tra il 1476 e il 1486, Domenico Bigordi detto il Ghirlandaio dipinse tre Cenacoli: nel convento di Badia a Passignano (tel. 055.8077832) e in quelli fiorentini di Ognissanti e di San Marco (polomusealetoscana.it). Fu uno dei primi artisti a riprodurre la trasparenza delle stoviglie in cristallino, che cominciavano ad arrivare dai vetrai della Valdelsa. La esaltò con tocchi di bianco, facendo intravedere gli oggetti collocati dietro bicchieri e bottiglie e copiando i riflessi della luce sulle pareti sottili. Le tovaglie dei Cenacoli fiorentini sono cosparse di ciliegie: 37 a Ognissanti, 61 a San Marco. A Passignano, nessuna. Forse a causa della lite con i frati vallombrosani che, secondo il racconto del Vasari, trattavano il pittore e i suoi aiutanti non come artisti, ma come manovali, servendo loro scodelle di minestra e «tortacce da manigoldi». Vennero alle mani. E pareva che «’l monistero rovinasse». Domenico e i suoi, per andarsene il prima possibile, devono aver apparecchiato la tavola di Gesù nella maniera più sbrigativa.

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Una piccola stanza. Gesù e gli apostoli siedono stretti l’uno all’altro sulle due panche ai lati lunghi del tavolo. Dalle quattro finestre, mezze chiuse da imposte di legno, filtra un chiarore azzurro luminosissimo, come al tramonto o all’alba, quando il sole è appena sotto l’orizzonte. Al tramonto di una sera di primavera con la luna piena Gesù cenò con i suoi. La stessa ora in cui cenavano i Romani, che all’epoca occupavano la Giudea. Giotto, nella cappella degli Scrovegni a Padova (cappelladegliscrovegni.it) ha riprodotto esattamente quell’ora e quella luce. E ha dipinto di giallo il vestito di Giuda, come quasi tutti i pittori dei Cenacoli, perché nel Medioevo il giallo, soprattutto quello bilioso tendente al verde, era simbolo dello zolfo infernale, del tradimento, dell’oro falso che ha perduto il suo splendore e diventa inganno. Con i secoli hanno perduto l’oro anche le aureole degli apostoli raffigurati da Giotto. In origine l’unica aureola nera incorniciava il capo di Giuda.

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Lo storico americano John Varriano, nella sua ricerca «At Supper with Leonardo» realizzata dopo i restauri sul dipinto di Santa Maria delle Grazie (cenacolo.it), ha riconosciuto nei piatti le anguille alla griglia guarnite con fette di arancia. L’ipotesi di Varriano, che pubblicò nel 2008 il suo lavoro sulla rivista «Gastronomica – The Journal of Food and Culture», nacque da una serie di ingrandimenti del dipinto e dall’analisi dei piatti più in voga nell’Italia rinascimentale. L’anguilla in agrodolce era tra questi. Ritenuta cibo di gran pregio per la sua carne bianca e grassa e perché era permesso mangiarla anche in quaresima, la sua immagine evocava la ghiottoneria e la crapula di chierici e prelati. Morirono per indigestione di anguille il re d’Inghilterra Enrico I, nel 1135, e il papa Martino IV, nel 1285. Dante, nel XXIV canto del Purgatorio, pone questo papa tra i golosi, mentre «purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia». Piatti di anguille furono serviti anche al banchetto nuziale di Ludovico il Moro, committente di questo Cenacolo.
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È il Cenacolo più studiato e copiato. Tra le infinite interpretazioni colpisce quella di Goethe, che nel 1788, sulla strada del suo ritorno a Weimar, vide il capolavoro di Leonardo in Santa Maria delle Grazie (cenacolo.it). Il poeta tedesco rimase impressionato dal coinvolgimento emotivo dei commensali: «Il turbamento tramite il quale l’artista scuote la tranquilla sacralità della tavolata serale nasce dalle parole del Maestro: C’è uno tra voi che mi tradirà! Le ha pronunciate, l’intero gruppo entra in agitazione; ma lui china la testa, lo sguardo abbassato; la postura, il movimento delle braccia, delle mani, tutto ripete con celestiale rassegnazione le parole terribili, le rafforza il silenzio stesso: Sì, in verità vi dico. C’è uno tra voi che mi tradirà». E rivela l’espediente usato da Leonardo per animare il dipinto: il movimento delle mani, che esprime i sentimenti, le passioni, perfino i pensieri dei tredici personaggi «dall’adolescente al vegliardo: uno pacatamente rassegnato, uno spaventato, undici eccitati e turbati dal pensiero di un tradimento in seno alla famiglia»

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Verso la fine del 1100 apparvero Cenacoli con i commensali in piedi. Un esempio straordinario si trova nel duomo di Modena (duomodimodena.it), dove l’Ultima cena è scolpita nel marmo del pontile che separa la navata centrale dal presbiterio rialzato. La realizzarono, tra il 1209 ed il 1225, i maestri campionesi, che erano scesi dalla zona dei laghi lombardi, guidati da Anselmo da Campione,  per lavorare in varie regioni della penisola. Gli apostoli qui sono in piedi su un solo lato della lunga tavola coperta da una candida tovaglia a pieghe. Gesù è al centro tra di loro e sporge il braccio, passandolo sopra Giovanni che dorme con il capo reclinato sul suo petto, per offrire a Giuda il famoso boccone rivelatore del tradimento. Soltanto Simone Zelota, che chiude la tavolata sul lato corto di destra, è seduto su uno scranno con braccioli, all’uso germanico. Lo identifichiamo perché il suo nome è scritto in alto, come i nomi degli altri apostoli che segnano i rispettivi posti. Simone, essendo il capo dei Magi, era riconosciuto per condizione sociale il più importante degli apostoli.

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L’Ultima Cena dipinta nel Trecento da Pietro Lorenzetti sui muri della basilica inferiore di San Francesco ad Assisi (sanfrancescoassisi.org) è una delle pochissime che, accanto alla stanza dove Gesù è seduto a tavola insieme agli apostoli, mostra anche la cucina. A sinistra del cenacolo, divisa da una parete, c’è la stanza col focolare acceso. Davanti al fuoco, un inserviente che pulisce i piatti con un canovaccio, un cane che mangia gli avanzi, un gatto che sonnecchia. Sullo sfondo la credenza con le stoviglie. Dietro il garzone, un uomo in piedi indica col pollice sinistro i commensali, come a dire di accelerare il servizio. Due servitori, che dai vestiti simili a quelli degli apostoli devono essere di rango superiore, discutono in piedi nel vano della porta che mette in comunicazione i due locali. Anche i gatti in cucina sono una novità. Nell’iconografia del Cenacolo, si trovano quasi sempre ai piedi della tavola, accanto a Giuda. Perché nella simbologia cristiana il gatto impersona il tradimento, la lussuria, il demonio.

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Siedono molto stretti gli apostoli intorno al tavolo nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (ravennamosaici.it). L’anomalia si spiega col fatto che la Cena si svolge attorno a uno «stibadium», la mensa usata dagli antichi romani in alternativa al triclinio. Anziché tre letti intorno a una tavola quadrata, come accadeva nel triclinio, lo «stibadium» aveva tavola e letto a forma di un arco di cerchio: benché a rigore potesse ospitare fino a nove persone, di solito non ne accoglieva più di sette o otto, figuriamoci tredici. Se gli invitati erano più di nove bisognava disporre altri «stibadia». Cristo e Giuda sono seduti alle due estremità, occupate, anche tra i Romani, dagli ospiti più importanti. L’immagine ravennate è tra le più antiche raffigurazioni (V-VI sec.) del banchetto pasquale di Gesù, insieme a quelle del Codex Purpureus di Rossano Calabro (Cs), del Dittico delle cinque parti nel Museo del Duomo di Milano, della Pala d’oro che rifulge dietro l’altare maggiore nella basilica di San Marco di Venezia

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Girolamo Romanino, nella pala d’altare del Duomo di Montichiari, in provincia di Brescia, illustrò le buone maniere da seguire a tavola. Siamo nel 1542. I due apostoli seduti in primo piano e quello in piedi accanto a Pietro hanno dispiegato il tovagliolo sulla spalla sinistra. Un dettaglio curioso e insolito nei dipinti del Cinquecento. In realtà una finezza da galateo, raccomandata una decina di anni prima da Erasmo da Rotterdam nel libro De civilitate morum puerilium, dove si prescrive: «Se ti vien dato un tovagliolo, devi poggiarlo sull’omero o sul braccio sinistro». Il filosofo raccomanda inoltre di tener puliti cucchiaio e coltello, che all’epoca solo qualche commensale usava, portandoseli da casa chiusi in un cofanetto. A chi non era dotato di posate, suggerisce di mangiare facendo uso di tre dita soltanto, che non andranno leccate o pulite sul vestito. Deplora l’abitudine di offrire a un altro commensale bocconi già masticati, l’usanza di grattarsi, il giocare con il coltello e l’usarlo per pulirsi le unghie.

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Forse è la più antica, ma non si sa da dove proviene, l’Ultima Cena del Codex Purpureus, un evangeliario greco miniato oggi conservato nel museo diocesano di Rossano Calabro (Cs), (artesacrarossano.it). Dei quattrocento fogli originali, in pergamena tinta di porpora, ne restano centottantotto. Contengono l’intero Vangelo di Matteo e quasi tutto quello di Marco, redatti in grafia maiuscola biblica o greca onciale, con caratteri in oro e argento. Delle quindici miniature, una dozzina raffigurano la vita di Cristo e tra queste compare l’Ultima Cena. Il  Codex fu segnalato per la prima volta nel 1846 dal giornalista Cesare Malpica e studiato nel 1879 dai tedeschi Oscar von Gebhardt e Adolf Harnack, che lo fecero conoscere il tutto il mondo. Ma non riuscirono a stabilirne con sicurezza la data, il luogo in cui fu realizzato e l’identità di chi lo portò a Rossano. Oggi la maggior parte degli studiosi ipotizzano che sia stato creato tra il IV e il VII secolo in Siria, forse ad Antiochia, e portato in Calabria durante l’ondata migratoria dei monaci greco-orientali in fuga dal primo iconoclasmo bizantino.

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Tra i pittori chiamati nel 1480 da Sisto IV ad affrescare le pareti laterali della Sistina (museivaticani.va), c’era Cosimo Rosselli, definito dal Vasari «non però eccellente e raro». Insomma non all’altezza di artisti come il Ghirlandaio, il Perugino, Sandro Botticelli, Luca Signorelli, che lo affiancavano nell’impresa di raccontare con i colori le Storie di Cristo e di Mosè. A Cosimo toccò la scena dell’Ultima Cena. I colleghi lo prendevano in giro perché non era capace di disegnare correttamente l’anatomia dei personaggi. Suppliva a questa mancanza con l’uso abbondante dell’oro, l’applicazione sapiente dei pigmenti, la meticolosità nel riprodurre certi particolari come la trama a losanghe della tovaglia. Il papa aveva promesso un premio, oltre il pagamento, al pittore che a suo giudizio avesse lavorato meglio. Con stupore di tutti, dichiarò vincitore Rosselli perché «con molto oro illuminò la storia». E ingiunse agli altri di aggiungere quell’oro, giudicato ormai arcaico, anche ai loro affreschi.

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Il telero con l’Ultima Cena, sei metri per tredici, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia (gallerieaccademia.org), fu commissionato dal frate Andrea de’ Buoni per il convento dei santi Giovanni e  Paolo. L’artista consegnò il dipinto il 20 aprile del 1573, ma il 18 luglio fu convocato dal tribunale dell’Inquisizione. L’accusa: interpretazione poco rispettosa del racconto evangelico. Gli veniva contestata la tavola imbandita, che riflette la magnificenza dei banchetti offerti dai signori del Rinascimento. E in particolare: i cani, un piccolo moro che accarezza un pappagallo sul braccio di un nano, un servo a cui esce il sangue dal naso, un commensale che si pulisce i denti con la forchetta. E poi «imbriachi, Thodeschi, buffoni et simili scurrilità».Veronese si difese citando Michelangelo, che nella Cappella Sistina «con poca riverenza» aveva dipinto nuda tutta la corte celeste. Gli fu ordinato di correggere il quadro entro tre mesi, a proprie spese. Risolse il problema cambiando il titolo, e scrivendolo a grandi lettere sulla cornice dei pilastri: Convito in casa di Levi.

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Andy Warhol conservava sul comodino una cartolina con il Cenacolo vinciano, che gli aveva regalato la madre quando era bambino. Ma soltanto due anni prima di morire cominciò a lavorare alle sue Last Supper. Giovedì 25 aprile 1985 scrisse nei Diari: «Sto cercando di trovare un altro negozio dove vendano la scultura de L’ultima cena, quella di circa 45 cm la vendono in uno dei negozi importanti della Fifth, vicino a Lord and Taylor, richiedono molto, circa 2500$. Così sto cercando di trovarla più a buon mercato in Times Square». Il modellino che Warhol cercava fu ritrovato nel suo studio dopo la morte: misurava 10,8 centimetri per 8,6. Lo riprodusse in una serie di polaroid in bianco e nero, che trasferì in sequenza nelle serigrafie delle grandi Last Supper, in un centinaio di variazioni. La Sixty Last Suppers, (sessanta volte l’originale di Leonardo) è stata venduta nel novembre 2017 da Christie’s Ne York (dopo essere passata dal Museo del Novecento di Milano) per 60.875.000 dollari.