la Repubblica, 29 marzo 2018
L’amaca
Al famoso “prezzo del successo” – spesso piuttosto alto in termini di stress e di sradicamento da una vita normale – si è aggiunto, negli ultimi anni, un notevole sovrapprezzo: fare fronte ai social, che sono una specie di tracimazione spazio-temporale del pubblico dal momento (breve) in cui sei su un palcoscenico al momento (eterno) nel quale sei in balia di chiunque abbia voglia di averti a sua disposizione in qualunque momento lo decida lui, vuoi per lodarti, vuoi per darti del cretino.
Come se lo spettacolo non finisse mai, vita natural durante, e gli applausi e i fischi non cedessero mai al silenzio, neppure per un istante. Un supplizio nel quale “la gente” diventa un rumore di fondo incurabile, come un acufene.
Dev’essere una condizione non facile da reggere, tanto è vero che perfino uno come Vasco Rossi, che in Italia è la star tra le star, ha sentito il bisogno di “rispondere ai social”: attività che, francamente, quando la star coinvolta (è il caso di Vasco) sia una star vera, brillante di luce propria, rischia di essere mortificante.
Dal punto di vista del linguaggio, che per un artista è tutto o quasi, la parola social – anche quella di Vasco – suona stizzita, suona sciatta e soprattutto suona sprecata.
Noi sogniamo le star che vivono solitarie e distanti, non ci piace vederle coinvolte in scaramucce da due soldi, almeno qualcosa e almeno qualcuno dovrà pure sottrarsi a questa ciancia gretta e inespressiva.