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 2018  marzo 29 Giovedì calendario

In 4 mesi le minacce sono raddoppiate e ora scatta l’allerta

ROMA Da quattro mesi lo spettro di una “Jihad italiana” si agita in modo scomposto sulla Rete. I reparti Antiterrorismo della polizia (Ucigos) e dei carabinieri (Ros) hanno registrato un dato che non può non inquietare: i messaggi sul web che invitano a colpire l’Italia sono quasi raddoppiati rispetto all’anno passato. Lo stesso vale per quelli che mirano al proselitismo.
E la gran parte è scritta in un perfetto italiano. Non in arabo e neanche in inglese, come avveniva di solito. Nella nostra lingua.
È anche per questo che il ministro dell’Interno Marco Minniti ha fatto capire come il terrorismo di matrice islamica, Isis, Al Qaeda e le sigle minori, non possa affatto considerarsi un capitolo chiuso.
Anzi. La perdita delle capitali nere in Medio Oriente – Raqqa e Mosul – non ha decretato la morte del Califfato. Il suo virus continua ad essere inoculato in Europa: l’attentato di Carcassonne di venerdì scorso e i due arresti di Foggia e Torino ne sono la dimostrazione.
La Rete, dunque. I “sensori” dell’intelligence infiltrati nei gruppi Facebook, nelle chat islamiste di Telegram e nel Deep Web, sono tutti in fermento.
Vedono girare con maggiore frequenza traduzioni in italiano di appelli al martirio, fotomontaggi del Vaticano e del Colosseo associati all’effige del lupo che chiamano a raccolta “i lupi solitari”, post che dichiarano le presunte colpe dell’Occidente allegando le immagini di Roma, di Firenze, di Venezia. «Sono ami, ami grezzi», spiega a Repubblica una fonte qualificata dell’Antiterrorismo. «Servono per agganciare soggetti borderline sul territorio che si intende attaccare. Niente a che vedere con i messaggi tecnicamente elaborati e complessi della prima fase del Califfato». Quando sui canali della comunicazione di Al Baghdadi venivano montati e pubblicati pseudo-servizi giornalistici sulla vita “meravigliosa” dei foreign fighter a Raqqa, o l’esecuzione secondo dopo secondo di un pilota giordano ingabbiato e bruciato vivo.
Un report di marzo dell’Istituto per gli Studi di politica internazionale ha contato, dal 2014 ad oggi, 432 riferimenti all’Italia, al Vaticano e a Roma nei contenuti prodotti e diffusi su Internet dalla propaganda ufficiale dello Stato Islamico: le due riviste in lingua inglese Dabiq e Rumiyah, i video, gli ebook, i comunicati dell’“agenzia di stampa” Amaq. In 299 casi sono menzionati Roma e i romani, in 36 il Papa e la Santa Sede, in 6 i politici italiani, in altri 6 le città.
Quelli che esortano a spargere “il sangue degli infedeli” nel nostro Paese sono il 25 per cento. Uno su quattro.
«Il proselitismo via web si è fatto più intelligente: punta alla radicalizzazione di gente che si trova già nel Paese che vuole colpire, evitando così di far arrivare qualcuno dall’esterno», osserva Arturo Varvelli, responsabile dell’Osservatorio Medio Oriente dell’Ispi.
L’uso dell’italiano serve anche a un altro scopo: coinvolgere gli estremisti salafiti sfornati dall’area balcanica, che non parlano l’arabo ma riescono a capire l’italiano.
«Temo di più il reclutamento di chi non è riuscito ad andare in Siria o in Iraq, rispetto all’azione dei foreign fighter di ritorno», osserva Francesco Strazzari, docente di Relazioni internazionli all’Università Sant’Anna di Pisa ed esperto in materia. Al momento il Viminale tiene sotto controllo undici reduci, quasi tutti siriani.
«Anche chi non è partito ma ha respirato quell’aria, munito della medesima giovane intraprendenza, può diventare un pericolo. Basta che si imbatta, sul web, con chi ci mette la miccia e l’innesco».