Corriere della Sera, 29 marzo 2018
Vicente Aleixandre e gli italiani. Lettere di un Nobel ai suoi traduttori
«Segnalo due piccole inesattezze: la data della mia nascita è 26 aprile 1898, anche se quella del 1900 è presente in molte mie biografie (…). Parlando di Federico e di Hernández, a proposito della mia Elegía a Miguel, lei dice: “Morti per causa diversa”. Non è esatto: la causa o il lato “della cosa terrena” è lo stesso», scrive da Madrid, il 7 febbraio 1952, Vicente Aleixandre ad Oreste Macrì, che gli ha inviato la traduzione – con nota introduttiva – di alcune poesie uscita su «Quaderni ibero-americani».
E il 24 novembre 1960, a Dario Puccini: «Vedo un errore, importante. Neruda non è stato qui fra il 1930 e il 1935, “epoca di grande creazione dei due poeti”. No, venne nell’ottobre ’34 [1934] e partì nell’ottobre del ’36 [1936]. Quando arrivò, io avevo già finito La distruzione o amore, che l’anno prima aveva ottenuto il Premio nacional de Literatura per l’inedito. Le date possono creare equivoci, nel suo Prologo, e contrastano con quanto lei nota circa possibili influenze reciproche. Neruda aveva già scritto la prima Residenza, come io Spade come labbra e La distruzione o amore. Non credo in reciproche influenze, ma in affinità d’epoca fra due poeti vicini al surrealismo, base di entrambi. Dato che in Italia Neruda è più conosciuto di me, questa frase sarebbe interpretata come se io dipendessi da Neruda. E questo sarebbe un grave errore».
Ecco alcune precisazioni, contenute in Cartas italianas, appena uscito, a cura di Giancarlo Depretis (Editorial Renacimiento, Siviglia, pagine 304, e 17,90), che presenta oltre 120 missive (1951-1984) del Premio Nobel, dirette ad alcuni dei suoi traduttori italiani: Oreste Macrì, Vittorio Bodini, Francesco Tentori, Dario Puccini e Gabriele Morelli. Un epistolario che discute su progetti di libri, ricerca di editori, consigli di traduzioni ed altro, inviate da Madrid e da Miraflores de la Sierra. «“Balanceada”, nel poema Idea, vuol dire equilibrata (l’equilibrio della bilancia) – scrive a Puccini, nel ’68 —; “Estancia”, in Eternamente, equivale a casa, abitazione; “Alzada”, riferita a voce in Il poeta canta per tutti, significa a voce alzata, che diventa più forte».
Invitato nel ’66 al Premio Etna Taormina, il poeta chiede sempre a Puccini se aderire o meno (aveva già partecipato nel ’53: lo avevano dato a Dylan Thomas). «Se la giuria stavolta fosse ben disposta nei miei riguardi, manderei i 15 esemplari richiesti di En un vasto dominio». Puccini risponde positivamente e Aleixandre partecipa, ma anche stavolta non ce la fa. L’Etna Taormina va alla russa Anna Achmatova. La ricordo, quella sera, al Castello Ursino di Catania: con i capelli bianchissimi e tutta vestita di bianco, sembrava una matrona romana. Per la poesia italiana il premio andò a Giuseppe Ungaretti e Mario Luzi.
Aleixandre (1898-1984), il quale, assieme a Lorca, Alberti, Salinas, Alonso, Diego, Guillén, Cernuda, Altolaguirre e Prados, fa parte della cosiddetta Generazione del ’27 (che guardava a Góngora) e che a Madrid studia Diritto ed Economia, proprio dal 1927 si trasferisce al numero 3 di calle Velintonia, dove resterà per tutta la vita. Alcuni anni prima, durante l’agonia del Modernismo, a Las Navas del Marqués, conosce Dámaso Alonso. La sua vita cambia: si manifesta la vocazione alla poesia, mentre nella penisola iberica arrivano le proposte di Apollinaire e di Marinetti. Finita l’università, Aleixandre nel 1925 si ammala di nefrite tubercolare: abbandona l’insegnamento e il lavoro in una compagnia ferroviaria. Dopo il volume Espadas como labios (1932) – che segue l’uscita di Ambito, (1928, supplemento della rivista «Litoral») ed altri versi in alcuni periodici —, Vicente si aggrava e gli viene asportato un rene.
Da allora il poeta – salvo pochissime eccezioni, e quasi tutte in Spagna – si divide fra la casa di Madrid, circondata da un grande giardino e quella di Miraflores de la Sierra, un pueblo a una cinquantina di chilometri dalla Capitale, dove Aleixandre trascorre l’estate. Una piazza del centro ospitava un grande pioppo nero (cui Vicente, nel ’62, dedica una poesia). Il poeta chiederà di essere seppellito con due rametti dell’albero, carichi di foglie. Cinque anni dopo, anche il pioppo è morto.
In calle Velintonia vengono Luis Cernuda, José Hierro, Pablo Neruda, Gerardo Diego, Jorge Guillén. Degli italiani, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. «Quasimodo venne d’inverno. Madrid era freddissima» – ricordava, nel settembre del 1977, mentre nello studio-soggiorno rettangolare rivedevamo la traduzione di Spade come labbra, che sarebbe uscita da Guanda a ridosso della consegna del Nobel (che avviene ogni 10 dicembre). Il «poeta dalla cattiva salute di ferro» – come lo chiamava qualcuno – non lascerà casa neppure per andare a Stoccolma. Il Nobel verrà ritirato, per lui, dal poeta Jorge Justo Padrón, il quale, da allora, chissà perché, è convinto di tornare al Konserthuset come premiato.