La Stampa, 29 marzo 2018
Uno, dieci, cento Sessantotto. La questione privata di Mughini
Era, come sempre è, una questione privata: il Maggio francese s’apre a Nanterre, l’Università nel Nord-Ovest di Parigi dove Daniel Cohn-Bendit, il celebre Dany le Rouge, e i suoi camarades sono costretti in alloggi separati da quelli delle ragazze. André Glucksmann sta per compiere trentuno anni e ne ha già le tasche piene di dibattiti sulla rivoluzione ma una donna dagli occhi gialli, «una Salomé in Levi’s e t-shirt», lo prende per mano e lo trascina dentro il corteo, e sennò addio. Anche Giampiero Mughini ha il fiato spezzato da una Bionda Ragazza che gli scrive righe di commiato mentre lui è a Parigi, in quel maggio di «rivolta ludica e delirante», studente poco più che ventenne, lettore di italiano nel liceo Hoche di Versailles; e i moti del cuore trovano lenimento nei moti di piazza. Non si deve metterla giù più piatta di quanto fosse nell’intenzione e nei risultati dell’autore. Una questione privata sommata alle altre questioni private produce le grandi questioni pubbliche: ecco che cosa fu, il jolie mai, una rivoluzione liberale in cui ognuno inseguiva un personale bisogno, rivendicava un personale diritto, e si buttava nella mischia col gusto di abbattere i muri che soltanto la massa in movimento dà, intanto che spazza via per un momento la drammatica solitudine metropolitana che è la prigione di tutti noi.
Era di maggio (in libreria da stamattina: Marsilio, pp. 128, €16) non è un libro da prendere così, come un’occasione commemorativa cinquant’anni dopo il Sessantotto. Lo sentirete, pagina per pagina, il peso dei polpastrelli che battono la vita sulla tastiera. Questo Sessantotto, a cui da cinquant’anni sono concessi soltanto panegirici o denigrazioni, viene stavolta fuori sacro e desacralizzato, punta al centro preciso di ogni esistenza, che contiene in sé il massimo del drammatico e il massimo del farsesco, e lo sa, Mughini, ricordando la notte in cui fece la guardia a una stanza vuota, credendola piena di rivoltosi addormentati, perché nessuno li disturbasse con lo sciacquone dei bagni adiacenti. E lo sa Caroline de Bendern, la celeberrima Marianna, modella aristocratica che stanca si issa sulle spalle di un amico, e quando vede il fotografo assume la possa da attrice, così bene che il bisnonno la disereda. Ma si può ridere sopra i ragazzi del Quartiere Latino che sfilavano gridando: «Noi siamo tutti ebrei tedeschi» (che slogan sublime), riprendendo quello che nei propositi di un giornale d’estrema destra doveva essere un insulto a Cohn-Bendit? Si può non restare incantanti dalla scossa di situazionismo – un deflagrare di libertà per la libertà – che mirava ad abbattere la Tour Eiffel perché con tutte quelle luci disturbava le notti dei parigini? È lì il bello di quelle tre settimane di fiera giocosa, come la definì il sommo Edgar Morin, o di psicodramma, secondo l’ancora più sommo Raymond Aron. La bolgia urbana, che ebbe anche morti (pochissimi), feriti (mica tanti), e scontri di piazza (in abbondanza) fu sottratta alle cupezze del leninismo, del trotzkismo e del maoismo che altrove, come in Italia, hanno portato dritto alla follia della lotta armata.
A Parigi finisce tutto con il rientro del primo ministro Georges Pompidou (mentre il presidente Charles De Gaulle rimane all’estero) e con una contro-manifestazione di settecentomila parigini che rivogliono l’ordine. Ma quel che andava fatto ormai è fatto. L’energia è liberata, cambiano le condizioni nelle fabbriche e nelle università, i ragazzi che avevano alzato barricate di sei metri, che avevano lanciato i pavés, sono già ripartiti a buttare le basi della cultura francese del successivo mezzo secolo. Dai maoisti, pendenti dalle labbra di Jean-Paul Sartre, vengono fuori Bernard-Henri Lévy e André Glucksmann, cioè i Nouveaux philospohes sul cui piedistallo sale Aleksandr Solzenicyn a testimoniare l’orrore sovietico. Jacques-Alain Milner sarà lo psicanalista allievo prediletto di Jacques Lacan. Georges Wolinski sarà il vignettista falciato nell’assalto a Charlie Hebdo. Serge July sarà il fondatore e il direttore più longevo di Libération. Altri apriranno librerie le più raffinate. Altri si daranno al cinema. Altri a brillanti carriere universitarie. Altri animeranno lo spaventoso e vivacissimo negazionismo francese. Mughini se ne tornerà a Catania, a relazionare i vecchi compagni su quell’esaltante esperienza. Resteranno tutti muti, ostili, perché nessuno cerca la verità: ciascuno vuole una verità buona per la sua questione privata. Il tempo è compiuto. Mughini prende un treno per Roma, a cercare quello che diventerà.