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 2018  marzo 29 Giovedì calendario

Ma a Palazzo Madama il patto giallo-verde rischia la fine di Prodi


Tra le immagini più trucide dell’Italia repubblicana rimarrà per sempre la mortadella affettata in aula dal senatore Nino Strano, il giorno che cadde Romano Prodi (27 febbraio 2008). Al suo governo era mancato un voto, quello di Clemente Mastella, dopo due anni di resistenza con le unghie e con i denti. Tutta colpa degli elettori, i quali avevano consegnato al centrosinistra solo 9 seggi di vantaggio in Senato. Tenerlo a mente può tornare utile, perché Palazzo Madama rimane la stessa giungla, anzi peggio. Rispetto alla Camera, dove certe alleanze sono possibili, qui è veramente difficile sfuggire alle larghe intese «contronatura». Per la solita questione di numeri.
Da soli non si può
Ora che si formano i gruppi parlamentari, le previsioni diventano certezze. Per esempio, un patto esclusivo tra Cinque Stelle e Lega raccoglierebbe in aula 167 voti, cioè 3 in meno di quelli (troppo pochi) che aveva Prodi. Procedendo a colpi di fiducia, un eventuale governo giallo-verde potrebbe resistere un po’. Purtroppo, il nuovo regolamento del Senato prevede due settimane di sedute ogni mese, e altre due di duro lavoro nelle 14 commissioni, vere fabbriche delle leggi. Con una maggioranza così striminzita, Di Maio e Salvini da soli avrebbero, se va bene, un voto di vantaggio in ciascuna commissione. Sarebbe dunque sufficiente che un leghista perdesse il Frecciarossa, o un grillino il bus della Raggi, e addio flat tax o reddito di cittadinanza. Senza contare i raffreddori, gli appuntamenti dal notaio, le nozze della figlia, insomma la fisiologia della vita normale. I nuovi capigruppo Danilo Toninelli (M5S) e Gian Marco Centinaio (Lega) dovrebbero agitare la frusta per mantenere la disciplina. Dieci anni fa successe di tutto: improvvisi cambi di casacca, senatori sudamericani più volubili delle banderuole, in qualche caso perfino tangenti. Per rinforzare la truppa, la Lega potrebbe arruolare qualcuno dentro Forza Italia, ma pure il Cav potrebbe fare shopping. Non per nulla Salvini ieri prudente osservava: «Meglio avere i numeri, altrimenti non si va da nessuna parte». Intendeva dire a Di Maio che l’apporto berlusconiano non sarebbe un optional, ma l’inevitabile rospo.
I rischi dell’Aventino
L’altra ipotetica alleanza, tra M5S e Pd, è perfino più complicata. In questo caso la somma dei due partiti si ferma a quota 161. Ciò comporta che una maggioranza si formerebbe solo se i senatori «dem», nessuno escluso, ne facessero parte. Tuttavia già sappiamo che Renzi non ne vuole sapere, ha dettato la linea dell’Aventino e per il momento i notabili del suo partito si dicono d’accordo. Alcuni di loro, però, hanno già messo gli occhi su un piccolo giacimento di voti: il Gruppo misto e quello delle Autonomie, che insieme valgono 20 seggi. Se questi senatori (tra cui 5 a vita e uno di diritto) sostenessero un governo M5S-Lega, allora forse il veto renziano potrebbe essere aggirato. Tutto dipende da quanti senatori resterebbero fedeli all’ex premier: per avviare un governo giallo-rosso, dovrebbero essere al massimo una dozzina.