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 2018  marzo 29 Giovedì calendario

Dalla blockchain un’arma in più per il made in Italy

Due fotografie al giorno. E poi la raccolta dei dati di umidità, temperatura, luce e vento. Nelle pianure del vercellese la piccola stazione di rilevamento lavora in silenzio, immagazzinando informazioni sui campi di riso, integrate dal diario di bordo dell’azienda agricola, che registra a sua volta le operazioni effettuate.
Il risultato, ovviamente digitale, sarà una sorta di carta di identità del prodotto, condivisibile lungo la filiera a valle, utilizzabile ad esempio dal brand che vorrà raccontare al cliente finale la storia del proprio chicco.
È il mondo della tracciabilità totale quello che si sta aprendo per le imprese grazie alle nuove tecnologie, in grado ora non solo di rendere disponibili le informazioni (accade da tempo) ma soprattutto di far dialogare parti diverse della filiera con dati “certi”, non modificabili, utilizzabili anche in chiave anti-contraffazione. La parola magica è blockchain. Noto ai più come strumento abilitante per la creazione di criptovalute, è in realtà un registro aperto e distribuito, in grado di censire transazioni e passaggi tra parti in modo sicuro, verificabile e permanente. Anche se in Italia le sperimentazioni sono ancora limitate, il fermento sul mercato è evidente, con le filiere dell’alimentare e del tessile a fare da apripista. «Si tratta di un modo per garantire trasparenza al consumatore – spiega Andrea Taborelli, imprenditore del tessile comasco e vicepresidente di Sistema Moda Italia con delega alla tracciabilità – e bypassare i limiti della normativa sul made in, che in realtà non protegge in modo adeguato le produzioni italiane». Nell’azienda di Taborelli la sperimentazione è già quasi terminata ed entro fine anno il progetto sarà operativo. Ogni fase di lavorazione, dall’ingresso del filo al finissaggio del tessuto, riceve una marcatura digitale univoca, fornita anche di geolocalizzazione per identificare il luogo in cui l’operazione avviene.
«La tracciabilità si può realizzare in molti modi – spiega l’imprenditore – ma con la blockchain ci sono vantaggi in termini di certezza e immodificabilità delle informazioni. È una patente digitale che a valle potremo condividere con i clienti, per dare trasparenza assoluta su ciò che facciamo. E in prospettiva questa tecnologia potrebbe anche aiutare la creazione dell’etichetta europea Etic (European Textile Identity Card), che in questo modo potrà essere adottata su base volontaria. Ma grazie alla blockchain anche certificata».
Sperimentazioni avanzate vi sono anche nel settore alimentare, altro territorio in cui la complessità e varietà dei processi di produzione e trasformazione rende particolarmente pregiata una forma di tracciatura “blindata”.
«La tecnologia – spiega il responsabile per questo settore di Ibm Italia Carlo Ferrarini – ha la capacità intrinseca di certificare la provenienza dei dati. In questo modo si possono far dialogare pezzi diversi di filiera, “rompendo” i rispettivi silos informativi per farli dialogare in modo strutturato».
All’estero le sperimentazioni stanno già riguardando i big, come Wal-Mart, che ha potuto ridurre da due settimane ad una manciata di minuti il tempo di identificazione di uno specifico problema su un lotto, tracciando quasi in tempo reale il prodotto: dall’azienda agricola fino allo scaffale. O ancora il colosso del cargo Maersk, per fornire tracciabilità assoluta ai propri container, eliminando anche ogni registrazione cartacea.
«In Italia siamo quasi all’anno zero – aggiunge Ferrarini – anche se è evidente l’interesse per lo strumento. Con Borsa Italiana abbiamo creato una soluzione per digitalizzare l’emissione dei titoli delle Pmi; con un grande gruppo italiano stiamo ad esempio tracciando l’intera filiera per certificare i singoli ingredienti dei sughi, dal campo fino alla tavola».
Un progetto operativo in Italia esiste già, realizzato dalla piemontese Torrefazione Caffè San Domenico: a giorni, semplicemente inquadrando un QR Code sulla confezione, il consumatore avrà sul proprio smartphone l’intera storia del prodotto: dal campo di origine allo scaffale. «Vorremmo arrivare persino al nome del contadino che conferisce il proprio sacco in Guatemala – spiega il titolare Roberto Messineo – per dare trasparenza assoluta al nostro lavoro artigianale. Innovare per una piccola realtà artigianale è davvero un lavorone, mi creda. Ma bellissimo, ne vale la pena». Progetto realizzato da Foodchain, start-up insediata a ComoNext che dopo anni di test in questo campo (sue sono anche le sperimentazioni nel vercellese) arriva sul mercato con le prime applicazioni. «Abbiamo deciso di partire dal food – spiega il fondatore Marco Vitale – perché si tratta dell’area più complessa ma il modello è applicabile a più realtà».
Il fermento di mercato è evidente nei primi dialoghi aperti dall’azienda con alcuni colossi del settore, come Barilla o Ferrero, ma con esperienze avanzate anche in altri ambiti, come dimostra il caso di Taborelli.
«Le potenzialità sono ampie – aggiunge Vitale – perché ad esempio, una volta creato il codice univoco del lotto, si possono associare eventuali analisi chimiche effettuate, così come report di prova o altre informazioni. Si lavora in una specie di cloud. Che però è caratterizzato da una firma digitale “forte”». Il mercato dunque cresce, tanto da spingere il Politecnico di Milano a dedicare al tema un Osservatorio ad hoc, che tra poche settimane sfornerà la prima edizione. «Per il made in Italy vedo grandi possibilità – spiega il direttore Valeria Portale – perché poter raccontare al meglio il proprio prodotto è decisamente un’arma in più. Del tutto accessibile, inoltre, anche alle Pmi».