Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2018
Tutti i dubbi di Wall Street
Elon Musk è stato il primo a prendere le distanze da Mark Zuckerberg, non appena Facebook ha subìto la caduta “epica” (così l’Economist) dei suoi valori di Borsa.
Così le sue aziende Tesla, SpaceX e SolarCity si sono immediatamente ritirate da Facebook. Del resto, tra Musk e Zuckerberg non correva da tempo buon sangue: l’estate scorsa una violenta polemica sulla natura e l’impiego della tecnologia li ha visti schierati su fronti contrapposti. Da una parte, Musk si era spinto a sostenere pubblicamente che l’intelligenza artificiale costituisce un pericolo, arrivando a ipotizzare un mondo in cui i robot si rivoltano contro le persone mettendone a rischio l’esistenza stessa (uno scenario che ricorda da vicino quello immaginato da Stanley Kubrick per il suo “2001: Odissea nello spazio”, in cui il dispositivo tecnologico di guida di un’astronave si ribella al controllo dell’equipaggio). Dall’altra, Zuckerberg gli aveva replicato riconfermando il carattere intrinsecamente progressivo dello sviluppo tecnologico, perché moltiplica le opportunità degli esseri umani e la loro capacità di connessione.
Divisi da quel contrasto, ora Zuckerberg e Musk si ritrovano, nonostante le loro opposte visioni, nella stessa difficile posizione finanziaria, messi alle corde da una Wall Street che non sembra più credere alle loro promesse di futuro. L’uno perché ha tradito la fiducia degli utenti, cedendo i loro dati sensibili a spregiudicate e oscure agenzie di manipolazione politica dell’elettorato, l’altro perché invece ha tradito le promesse fatte ai consumatori, che non si vedono consegnare le avveniristiche vetture che avevano prenotato ancor prima che fossero prodotte. Eppure il mondo finanziario aveva a lungo concesso a entrambi una fiducia quasi illimitata, che ora viene meno, minacciando così non soltanto la continuità delle loro imprese, ma forse la tenuta di un modello di business che fino a pochi giorni fa ostentava di incarnare il domani.
Per la prima volta si incrina l’alleanza in vigore fra il sistema dell’high-tech (quello che per comodità viene registrato sotto l’etichetta geografica e simbolica della Silicon Valley) e l’imponente processo di finanziarizzazione che ha il proprio cardine in Wall Street. Sarebbe avvenuto lo straordinario successo del capitalismo delle piattaforme digitali senza il gigantesco afflusso di capitali alimentato dalla Borsa americana nella loro direzione? La risposta non può che essere no: la progressione di crescita della capitalizzazione delle grandi imprese high-tech è stata assicurata da mercati finanziari surriscaldati, spesso protesi a valorizzare società di servizio che hanno prodotto utili molto tardi e soprattutto posseggono asset fisici pressoché irrilevanti rispetto a quelli immateriali. Nel caso di Facebook, a fronte di una capitalizzazione ancora maestosa, gli asset materiali ammontano in tutto a 14 miliardi di dollari.
Quanto sta capitando in questi giorni getta una luce diversa anche sul recente passato. L’espansione di Facebook si è svolta, allo stesso modo che per le altre piattaforme tecnologiche, attraverso l’incorporazione di attività, acquisite allo scopo di rafforzare il business. Uno dei casi più noti è quello della piattaforma di messaggi WhatsApp, rilevata da Zuckerberg per un valore di 16 miliardi di dollari (oltre a tre miliardi di stock options). Mai come in quel caso aveva operato la logica all’origine della fortuna delle startup della Silicon Valley: imprese che nascono attorno a una specifica idea di business, sulla quale raccolgono il consenso dei fondi di venture capital, mirano al successo in tempi rapidi (tre-cinque anni) per essere poi acquisite dai giganti, con guadagni di capitale enormi. In fondo, i promotori delle startup hanno adottato le teorie di Schumpeter nella forma più radicale: si può essere davvero imprenditori (e cioè portatori di innovazione) per un breve tratto della propria vita professionale, sicché poi, afferrati il successo e la ricchezza, si torna nei ranghi.
Il problema è che la leva di questo processo è la finanza, che scommette, sì, sulle idee di business più originali e promettenti, ma ben prima che se ne sia verificata l’efficacia economica. Chi lavora presso le startup punta a propria volta sulle stock options che riceve entrando nel gruppo di lavoro e che formeranno, se le cose andranno bene, il premio economico più importante per la sua opera.
A ben vedere, si tratta di un meccanismo dagli effetti distorsivi, che esalta la corsa a un’espansione smisurata, come quella che Facebook ha perseguito fino a poco fa. Così, mentre Zuckerberg era già lanciato oltre la soglia dei due miliardi di utenti, l’obiettivo di Apple, a inizio anno, era di raggiungere la capitalizzazione record di un trilione di dollari.
Musk, che pure non ha smesso di parlare di fabbriche e di produzione materiale, è stato preso anch’egli in questo ingranaggio. Le sue Tesla sono vetture bellissime, piene di innovazioni, e resteranno nella storia dell’auto. Ma Musk non si è dimostrato fin qui capace di operare secondo criteri autenticamente industriali. Ha cioè fallito alla prova della produzione dei suoi veicoli su una scala che non fosse simbolica. È questo che, di colpo, nella temperie attuale, ha rivelato l’assurdità del divario di valore raggiunto in Borsa dalla Tesla rispetto al sistema dell’auto di Detroit, in cui sono incardinate conoscenze e competenze ancora indispensabili per la produzione automobilistica, probabilmente anche del futuro.
Impossibile prevedere come potrà proseguire la tempesta finanziaria in cui sono finiti Zuckerberg e Musk. Quello che è certo, al di là dei loro casi, è che essa avrà ripercussioni sulle prospettive della Silicon Valley.