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 2018  marzo 28 Mercoledì calendario

Come uccidere la moglie e diventare una celebrità

Ravenna si sta svolgendo un processo-show che, più che un processo, è un trattato psicologico sulla personalità di certi uomini e sui moventi futili, rabbiosi e narcisistici che ci sono dietro agli assassinii di tante donne. Il protagonista è Matteo Cagnoni, ex dermatologo noto per le sue apparizioni in tv e rampollo di una famiglia dell’alta borghesia, che il 16 settembre 2016, secondo l’accusa, ammazzò la moglie Giulia Ballestri a bastonate nella villa disabitata di famiglia. L’aveva convinta ad andare lì con lui per fotografare dei quadri di valore che avrebbero dovuto vendere. Un omicidio particolarmente efferato perché, dopo le bastonate, la testa della donna fu sbattuta  ripetutamente contro uno spigolo della casa.
Avevano tre figli, lei lo voleva lasciare. Grazie a un investigatore privato lui aveva scoperto che Giulia aveva un altro uomo. E non lo accettava. Giulia fu lasciata lì, ancora agonizzante e col solo reggiseno addosso. Si sarebbe potuta salvare, ha detto il pm in aula qualche giorno fa. Il marito, dopo il presunto omicidio, si recò a Firenze, a casa del padre, con i tre figli della coppia. Quando la polizia andò a prenderlo giorni dopo, scappò dalla finestra fuggendo verso il fiume, per poi essere catturato la notte stessa.
Di prove contro di lui ce ne sono un’infinità. I cuscini sporchi di sangue di Giulia che Cagnoni, il giorno dell’omicidio, portò da Ravenna a Firenze, per nasconderli in cantina. Il suo Dna è sul bastone. Le tracce delle sue mani insanguinate sui muri della villa. I filmati delle telecamere ricostruiscono i suoi spostamenti. Le bugie. Le contraddizioni. Il sangue di Giulia sui suoi jeans, sulla maniglia del portellone posteriore della sua auto e sul vetro di una torcia trovata in macchina.
Un delitto schifoso, ma tutto sommato sulla scia dei tanti che conosciamo, verrebbe da pensare. E invece questa storia si distingue per quello che sta accadendo in aula, udienza dopo udienza, con un imputato che sta trasformando in un evento mediatico, quasi teatrale, la morte di una donna che aveva la colpa di quasi tutte le donne che muoiono così: quella di voler provare a essere felice lontana dall’uomo che la considerava una proprietà. Cagnoni si presenta puntualmente in aula con le sue camicie stirate e inamidate, le cravatte eleganti, ben annodate, i completi principe di Galles e l’aria spavalda di chi sfiderà la corte fino all’ultimo, negando qualsiasi addebito. Cercando di conservare la sua reputazione, che pare la cosa che gli interessa di più. Del resto, Cagnoni era famoso, a Ravenna. Era stimato, era ricco, andava in tv, aveva una bella moglie, tre figli piccoli, una famiglia da esibire come la laurea e i quadri di valore nelle sue tante case.
Arriva in tribunale con fascicoli e appunti sotto l’ascella, in una delle ultime udienze leggeva Repubblica con fare strafottente, mentre sfilavano i testimoni. Ha creato attorno a sé un perverso alone di divismo: a ogni udienza i telefoni del tribunale impazziscono perché la gente vuole sapere se deve prenotarsi per entrare, come fosse il concerto di Vasco Rossi. Tutti vogliono vedere Cagnoni, assistere alle sue sfuriate, godersi lo show che regala ai curiosi, certo, ma anche alla famiglia di Giulia, costretta a subire non solo ricostruzioni dolorose di un omicidio, ma pure l’insolenza dell’ex marito di lei nonchè unico imputato. Si creano file fuori dal tribunale, l’aula è popolata da un curioso e disarmante esercito di signore che lo fotografano e lo riprendono per portare a casa il feticcio, ovvero un ritratto dell’affascinante dermatologo così distinto pure dietro alle sbarre.
E allora parliamo di quest’uomo distinto, della sua linea difensiva, di come ha ricordato la povera moglie e dell’atteggiamento in aula. Cagnoni era un marito padrone. Narcisista fino al midollo. Vendicativo. Lo dicono i numerosi testimoni sfilati in aula, che Giulia aveva paura di lui. Dopo 12 anni di matrimonio lei non ce la faceva più, aveva una storia con un altro, voleva il divorzio. Lui non lo accettava, pretendeva rapporti sessuali a cui lei acconsentiva “fingendosi morta”. Le aveva messo un investigatore privato alle calcagna. Aveva in mano foto e registrazioni. Una di quelle registrazioni, a dieci giorni dall’omicidio, la fece ascoltare ai suoi amici per far sapere loro, evidentemente, che donnaccia fosse la moglie: in quegli audio diceva all’amante che ormai, del marito, le dava fastidio perfino l’odore.
Cagnoni andò dalla suocera a spifferarle che Giulia stava con un poveraccio, un ignorantone. Nel frattempo, per assicurarsi di non lasciarle nulla in fase di separazione, si era disfatto di tutti i suoi beni (case e conti), passando praticamente tutto al fratello. In aula, quando il pm gli ha chiesto come mai avesse portato via dei cuscini sporchi di sangue di Giulia dalla scena del delitto, ha riposto strafottente che molto probabilmente la moglie su quei cuscini aveva avuto dei rapporti sessuali. E neppure con l’amante ufficiale, ma con un altro ancora. Perché pur di difendere la sua reputazione, passa sopra quella della moglie più e più volte. Mentendo spudoratamente.
Nell’udienza del 15 dicembre Cagnoni, mentre torna nella sua cella, incrocia lo sguardo della ex suocera e madre di Giulia e le urla “vacca del Polesine!”. Il fratello della ex moglie gli risponde “ti aspetto fuori!” e a quel punto Cagnoni si improvvisa vittima, frignando col giudice: “Sono stato minacciato!”. Momenti da prima serata tv.
Alle accuse, poi, risponde con tesi surreali e l’aria beffarda di chi non arretrerà mai di un passo. Dice che Giulia non l’ha uccisa lui, ma “i ladri acrobati strafatti di cocaina che vanno nelle case e ammazzano i vecchi”. Quando gli chiedono come mai ci sia sangue di Giulia sulla maniglia della sua auto, sulla torcia nell’auto e sui suoi jeans, dice (udite udite) che Giulia, aprendo l’auto, si era tagliata con un triangolo di vetro nascosto sotto la maniglia da un suo presunto nemico. Per fermare il sangue avevano cercato dei fazzoletti nel cruscotto dove c’era la torcia, che quindi si era sporcata col sangue. Infine erano entrati in casa e lui le aveva suturato la ferita in cucina. Qualche macchia di sangue era finita sui jeans.
Il pubblico borbotta, sospira, rumoreggia. Se lo immagina già fresco di dopobarba e con la cravatta a righe ospite di Franca Leosini. O forse fuori dal carcere, chissà, perché magari a uccidere Giulia sono stati davvero gli uomini ragno, gli acrobati, gli stranieri. Intanto, a febbraio, Cagnoni ha chiesto ai giudici di compiere un atto di clemenza. “Datemi i domiciliari. Mi sento abbattuto, ai piedi di Cristo. Non sto bene e ho paura che mi venga un tumore come già in altre repubbliche successe per questioni di sistema immunitario”. Si sente Enzo Tortora. Una vittima. Nel frattempo però, pur di salvare la pelle (deformazione professionale da dermatologo, verrebbe da ironizzare) continua a infangare la reputazione della moglie. Una donna che stava provando a essere felice lontano da lui, dalla sua vanità, dalla sua prepotenza e morì, in maniera terribilmente simbolica, ai piedi di un quadro su cui finirono numerosi schizzi di sangue. Il nome di quel quadro era “Narciso”.