la Repubblica, 28 marzo 2018
Il fotoromanzo di Zavattini, profeta del #MeToo
Nella prima vignetta della terza puntata, Anita si sveglia sull’erba “con un senso di nausea e di orrore”.
L’abitino a quadretti col pizzo, da Alice nel paese delle meraviglie, le scopre appena le ginocchia: da quel solo dettaglio capiamo che il peggio è avvenuto.
Anche a lei, come a tante: #MeToo. Ma all’alba degli anni Sessanta lo stupro è ancora una vergogna innominabile, un delitto che incolpa la vittima, è La colpa: il titolo di questo fotoromanzo di Bolero, uno tra le migliaia di film di carta che sbancavano le edicole di quei decenni. Ma questo è speciale, e non solo perché affronta un tema che non ci si aspetterebbe. Ma perché ha un autore celebre, mascherato e insospettabile. Quell’autore è Cesare Zavattini. C’è voluta la bella pazienza e lo spirito da investigatrice a Stefania Carretti, animatrice dello Spazio Gerra di Reggio Emilia, per scoprirlo, e portarlo in mostra, fra pochi giorni, al festival Fotografia Europea. Dove sarà rianimato da un sequel a sorpresa.
Che Zavattini avesse scritto un soggetto per un fotoromanzo non era ignoto. Del resto, il genio divergente di Luzzara esplorò in quegli anni tutti i linguaggi popolari e di consumo, il fumetto, il cartone animato, la radio, il disco musicale, “quando voglio uscire dalla pagina, mi butto sul primo mezzo che trovo”, senza complessi, anzi con un atteggiamento di sfida contro le “caste della cultura ufficiale”.
Direttore dei settimanali Mondadori negli anni Trenta, pare sia stato proprio lui a suggerire per primo, inascoltato, l’idea del fotoromanzo, un’invenzione tutta italiana che ebbe gloriosa vita solo nel dopoguerra. Bene, c’erano dunque, negli archivi zavattiniani alla biblioteca Panizzi di Reggio, cinque cartelle dattiloscritte che iniziano “questa è la storia di un grande amore”. Invece è la storia di uno stupro di gruppo: la cui vittima, l’ingenua diciassettenne Maria, si innamorerà senza riconoscerlo di uno dei suoi violentatori, il camionista Corrado, paradossalmente l’unico, nel gretto paesino emiliano, che sembra non giudicarla una sgualdrina. Questo prima di scoprire l’inganno e fuggire in America per sempre. Soggetto troppo crudo, si pensava, per la fabbrica dell’evasione in bianco-e-nero che fu il fotoromanzo italiano. Ma fra le carte ecco che spunta una lettera in cui Carlo Pedrocchi, direttore di Bolero Film, rassicura Zavattini: tranquillo, il tuo soggetto apparirà sotto lo pseudonimo di Cesare Altieri. Dunque il fotoromanzo si fece: e, seguendo quell’indizio, dagli archivi Mondadori è finalmente riemerso La colpa, uscito in trenta puntate a partire dal 26 aprile 1962, recitato da due “volti nuovi”, Maria Teresa Orsini, di cui si sono perse le tracce, e Raoul Pisani, che fece poi una buona carriera di attore e cantante. Tra soggetto e pagina, però, la storia è un po’ cambiata. Si è fatta più complicata, forse gli sceneggiatori l’hanno interpolata con altri soggetti, in fondo la trama di Zavattini era esile. Ma si è anche semplificata: lo stupro di gruppo, troppo crudo, è diventato l’“approfittarsi” da parte del solo Corrado della commessa Anita, semincosciente dopo una serata in balera. Lo stigma sociale che colpisce Anita è descritto con inattesa crudezza: la ragazza perde il lavoro, viene allontanata dalla famiglia, ridotta a servetta di un ambiguo padrone. Corrado, come nel plot originale, la corteggia, ma intanto spunta un rivale. E quando la tremenda bugia di Corrado viene smascherata, Anita sceglie l’altro, in un finale meno ambiguo, ai nostri occhi, di quello previsto da Zavattini (dove l’eroina-vittima lasciava aperta una porta alla riconciliazione col suo carnefice).
Dunque era possibile, anche cinquant’anni fa, anche sul più melodrammatico e apparentemente conformista dei mass media, con la sua classica struttura da tragedia greca (caduta, inganno, agnizione, catarsi), parlare di stupro denunciando il pregiudizio e simpatizzando per la vittima. Ma perché stupirsi? Erano donne, le lettrici avide di fotoromanzi, e le donne sapevano. E quel medium disprezzato dagli intellettuali perché troppo cheap (“vaccate immonde” le definì Italo Calvino), malvisto sia dal Pci (non c’è la lotta di classe!) che dalla Chiesa (corrompe le giovinette!), passava silenziosamente sotto le barriere della morale ufficiale. Zavattini era convinto della sua potenza, lo considerava “un modo di espressione legittimo”, anzi “un’avanguardia istintiva”, consigliava ai romanzieri di “uscire dalla porticina dell’orto” e sperimentare questo “amplesso” in cui le immagini “aprono il senso” alle parole. Nel ’59 aveva perfino vagheggiato una riduzione in fotoromanzo nientemeno che della Divina commedia, con Gassman nel ruolo di Dante. Ma poi si convinse che la forma fotoromanzo aveva uno spirito autosufficiente, senza bisogno di ricoperture pedagogiche. Sì, c’era un potenziale di liberazione nel fotoromanzo: lo aveva capito, chi l’avrebbe detto, una comunista ortodossa come Teresa Noce: ma quale “arretratezza”, scrisse polemizzando con i compagni sospettosi (compresa Nilde Iotti), non c’è nulla di male se un’operaia sogna su quelle paginette, perché “il principe azzurro è sovente solo l’aspirazione a qualcosa migliore del presente, a una vita più bella e gioiosa, meno difficile e meno faticosa”. Perfino dall’ultrasinistra dei movimenti ci fu chi invitò a “recuperare il momento dell’evasione fantastica” del fotoromanzo, “non fuga dal reale ma recupero di nuove energie”.
Mai definitivamente morto, risorto carsicamente in mille occasioni, il fotoromanzo poteva essere dunque un medium politico, una fabbrica di coscienza? La controprova, oggi, da un esperimento.
Cinquantasei anni dopo, La colpa avrà un sequel che si chiamerà, ovviamente, Senza colpa: lo sta “girando” a Reggio una troupe di fotografi e attori, e il suo format ora è Instagram, dove una striscia quotidiana di sei vignette sarà condivisa tutti i giorni a partire dal 20 aprile, con la possibilità per i lettori di commentare e suggerire svolte nella trama. Il nuovo Zavattini si chiama Matteo Casali, sceneggiatore fumettista: ha richiamato in scena Anita, diventata una settantenne fioraia la cui giovane commessa rivive il suo antico dramma. Ma naturalmente, nell’anno del #MeToo, le cose questa volta andranno in tutt’altro modo. Perché l’umile fotoromanzo popolare, il feuilleton che anticipò i serial televisivi più che riprodurre il cinema, come scriverà Silvana Turzio nel libro che sta dedicando alle sue resurrezioni politiche, sa essere “più forte del destino”.