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 2018  marzo 28 Mercoledì calendario

Uomo in mare nei Cinquanta Urlanti. Il giro del mondo fa un’altra vittima

«Sono particolarmente addolorato di informarvi che uno dei nostri velisti, John Fisher del Team Scallywag, è disperso in mare». Il dispaccio ai naviganti di Richard Brisius, presidente della Volvo Ocean Race, piomba sulla flotta nel giorno più nero del giro del mondo a vela 2017-2018. «Disperso» nel Pacifico del Sud, lo sanno tutti i velisti del mondo, significa una cosa sola: morto.
Sono le 13.42 Utc (universal time coordinated) di lunedì, le 15.42 in Italia, quando il quartier generale della Volvo Race riceve la peggiore delle notizie possibili: uomo in mare nei 50 gradi Sud, la zona meno ospitale del pianeta. È il nono giorno della settima tappa da Auckland (Nuova Zelanda) a Itajaì (Brasile). Nei Cinquanta Urlanti, a circa 1.400 km da Capo Horn, in quel momento ci sono 35 nodi di vento, mare formato, acqua a 9 gradi, meteo in rapido peggioramento. Su Scallywag, barca battente bandiera di Hong Kong, skipper il neozelandese David Witt, quota rosa garantita dall’olandese Annemieke Bes, il velista inglese John Fisher, detto Fish, è appena salito in coperta per cominciare il suo turno. «Tutti i partecipanti sono dotati di muta di sopravvivenza, salvagente, cintura, dispositivo di localizzazione e luce stroboscopica – spiega il direttore di regata Phil Lawrence —. Si suppone che John li indossasse». Per motivi che solo i testimoni oculari potranno chiarire (un’onda anomala, un colpo di boma, una strapoggia, una disattenzione), Fisher viene sbalzato fuori bordo. C’è ancora luce naturale, ma vedere e sentire un uomo in mare in quelle condizioni, alla velocità con cui la barca sta planando, è quasi impossibile. Paolo Martinoni, imbarcato su Rolly Go nella Whitbread ‘81-‘82, ne sa qualcosa: «Caddi in acqua proprio in quella zona – ricorda oggi —. La mia fortuna fu il cambio della guardia tra i due turni: erano tutti svegli e all’erta, si accorsero immediatamente dell’accaduto. Pierre Sicouri prese il timone: dopo essermi passati sopra, riuscirono a tirarmi su». Chissà che spavento, Paolo. «Quando vidi la scritta Yacht Club Costa Smeralda sulla poppa della barca che si allontanava, fui colto da un dispiacere indicibile. Se non mi avessero subito ripescato, sarei morto». E dopo? «Mi issarono a bordo, mi spogliarono nudo, mi offrirono una sigaretta e un tè caldo e mi fecero saltare il turno successivo. Dopodiché ero pronto a ricominciare».
John Fisher non ha avuto fortuna. Il capitano Witt ha invertito l’andatura di Scallywag e perlustrato la zona per tutta la notte, mentre gli altri sei yacht (200 miglia più a Est) proseguivano verso Capo Horn con la morte nel cuore. Da ieri il 47enne veterano della Sydney-Hobart alla prima Volvo Race, è entrato nella triste contabilità del giro del mondo a vela. Tre dispersi nella prima edizione (‘73-’74), uno in quelle ‘89-’90 e 2005-2006, ricordata anche per l’affondamento di Movistar (equipaggio salvato dagli avversari), più una lista incredibile di tragedie sfiorate (una per tutte: Brooksfield, skipper il torinese Guido Maisto, che perde la poppa al largo dell’Australia nel ‘93). E in questa Volvo ci aveva già rimesso la vita un pescatore cinese nello scontro con Vestas a poche miglia dall’arrivo a Hong Kong. Per non parlare di Alex Gough, sempre di Scallywag, caduto e ripescato al volo nella quarta tappa.
Il giro del mondo è anche rischio: ogni velista che si imbarca ne è a conoscenza. La ciurma di Scallywag, piegata dal dolore, sta facendo rotta verso il Cile, dove arriverà tra quattro giorni. Senza più lacrime, e senza Fish.