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 2018  marzo 28 Mercoledì calendario

Dai robot alle ibride, la risposta di Pechino alla quarta rivoluzione

Attrazione fatale. La quarta rivoluzione industriale, Industria 4.0, ideata dalla Germania nel segno della tecnologia applicata ai processi produttivi, è piaciuta talmente tanto a Pechino da spingerla, tre anni fa, a lanciare Made in China 2025. Il piano cinese punta a migliorare l’industria nazionale, a renderla competitiva entro il 2035 e a conquistare la leadership mondiale entro il 2049, centesimo compleanno della Nuova Cina.
I numeri sono da capogiro: Made in China prevede un incremento del 70% dei robot industriali, l’80% delle macchine ibride o elettriche, il 70% dei dispositivi medici e l’80% dei componenti per macchinari avanzati. Pechino sa bene che il vero Made in China nel mondo ha un bassissimo indice di gradimento, costi bassi, bassa qualità, nonostante il boom della tecnologica applicata alla finanza – i pagamenti digitali sono pari al 69%, contro il 42% degli Stati Uniti e una media globale del 33%. Nel suo ultimo discorso l’ex Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan, non a caso ha profetizzato che in Cina, a breve, non circoleranno più banconote.
Tuttavia, la Cina che produce oltre il 90% dei telefonini, il 60% dei televisori, l’80% dei computer – in pratica, la fabbrica del mondo – ha bisogno di investimenti altamente qualificati. Manco a dirlo, i primi a tendere le orecchie a Made in China 2025 sono stati tedeschi e inglesi, pronti a studiare il piano nei dettagli cercando di cogliere le opportunità e i rischi. Ma come sta andando la strategia in questa fase di aumento del costo del lavoro e dell’aumento di pressioni su ambiente e risorse unite alla competitività di altri Paesi anche in Asia? L’attrazione di nuovi arrivi qualificati da consacrare in joint venture paritetiche si sta rivelando complessa, e la vera zavorra è rappresentata, ben oltre le parole alate di Xi Jinping del famoso discorso di Davos 2017 sulla globalizzazione, dalla lentezza delle riforme cinesi.
Lo State Council ha dettato l’anno scorso linee generali poi diffuse, ancor più in dettaglio, dalla municipalità di Shanghai per spingere sui nuovi arrivi: ben 8.734 aziende straniere figuravano registrate nella zona di pilota di libero scambio a Pudong con investimenti pari a 688 miliardi di yuan (circa 100 miliardi di dollari). È partita la nuova negative list applicabile alle zone più “calde”, le 11 Free trade zones autorizzate, a partire dalla prima, quella di Shanghai, inaugurata a fine settembre del 2013.
In contemporanea, è stato varato anche il nuovo catalogo degli investimenti stranieri in Cina, lo scorso 28 giugno il Ministero del Commercio (MofCom) e la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (NDRC) hanno dato il via libera a un nuovo catalogo che contempla un minor controllo sugli investimenti esteri nel settore dei macchinari ferroviari, nei prodotti farmaceutici, nelle assicurazioni, nella contabilità e nell’industria dei trasporti. Nel frattempo, è stato ufficializzato anche il numero di industrie limitate agli investitori stranieri, ridotto di 30 settori.
Eppure, non basta. Il diritto a un trattamento paritario sembra garantito, sulla carta, soltanto nelle zone di libero scambio. Come si possa aderire senza patemi d’animo a Made in China 2025 è ancora un rebus e in Europa, dove i Governi hanno varato misure per l’industria 4.0, in molti storcono ancora il naso. Se le barriere non cadranno per davvero, la prima a soffrirne sarà la Cina di Xi Jinping versione 2.0, il segretario generale è al suo secondo round e dovrà affrontare e sbrogliare proprio queste difficoltà.