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 2018  marzo 27 Martedì calendario

Senza lieto fine. La Londra nera di Wilkie Collins

I due principali romanzi di Wilkie Collins, La donna in bianco e La pietra di luna, sono stati ridotti e trasmessi nelle televisioni di tutto il mondo.
Ma non credo che questi e gli altri romanzi di Collins siano veramente conosciuti dai lettori italiani. Negli ultimi mesi, gli editori Castelvecchi e Fazi hanno tradotto con grande attenzione La donna in bianco (scritto nel 1859-60): Senza nome
(nel 1862): Armadale (nel 1866): il famosissimo La pietra di luna (nel 1868), di cui esiste anche un’edizione negli Oscar Mondadori con prefazione di T.S, Eliot; e L’albergo stregato, scritto nel 1869.
Wilkie Collins nacque a Londra, l’8 gennaio 1824, da un padre pittore: da principio si occupò di commercio del tè; nel 1850 pubblicò il primo romanzo, Antonina. L’anno dopo conobbe Charles Dickens, che aveva dodici anni più di lui, e che ne pubblicò i romanzi e i racconti nella propria rivista All the year round: a Parigi, essi trovarono sulle bancarelle vecchie cronache di delitti, e viaggiarono in Francia, Svizzera ed Italia.
Scrissero insieme alcuni libri, influenzandosi a vicenda, tanto che a volte è difficile distinguere ciò che è dickensiano da ciò che è collinsiano. Nel 1854, a trenta anni, Collins cominciò a soffrire di gotta reumatica: come Thomas De Quincey, al quale si sentì sempre legato, si curava col laudano, e ne diventò preda e vittima. Come dice un suo personaggio, era un «incallito mangiatore d’oppio» e conosceva terribili sogni, incubi e deliri. Nel 1873-4 viaggiò nel Canada e negli Stati Uniti dando letture pubbliche dei propri libri, e incontrando Mark Twain, che ne subì l’influenza. Negli ultimi anni fu malato, e non riusciva più a scrivere. In seguito a un incidente in carrozza venne colpito da un ictus, e il 23 settembre 1889 morì a Londra.
Come disse in un bellissimo saggio, Wilkie Collins si rivolgeva in primo luogo ai lettori comuni: non corteggiava il pubblico delle riviste letterarie, ma quello dei fogli venduti a un penny la copia. Era molto colto. Appena prendeva in mano la penna sentiva alle spalle il Robinson Crusoe di Defoe, il Tom Jones di Fielding, le Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey: i Racconti di Poe; il sergente Cuff della Pietra di luna è un erede di Auguste Dupin. Collins si ispirava alla grande tradizione musicale e teatrale italiana: quella comica e quella sublime: il Barbiere di Siviglia, il Guglielmo Tell, il Mosè in Egitto di Rossini, la Lucrezia Borgia di Donizetti; il teatro dei burattini. È un italiano anche il Conte Fosco protagonista della Donna in bianco, scaltro e criminale, sublime e buffonesco, che assomiglia a Napoleone I, indossa meravigliosi panciotti rossi, viene ucciso dalla massoneria e gettato nella Senna. L’influenza di Wilkie Collins discende sino alle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain e al Ritratto di Signora di Henry James, scritto nel 1881.
Sia pure mascherata e camuffata, nei libri di Collins appare la Provvidenza cristiana, che sta sopra le singole persone e i singoli eventi: l’Apocalisse, “Babilonia, la Grande Prostituta”: la caduta dall’Eden: «nulla – dice un personaggio – è al di sopra delle perversità umane»; «il cuore umano è insondabile. Chi potrà mai scandagliarlo?». Uno scrittore di gialli come Wilkie Collins è, sempre o quasi sempre, un teologo. La caduta produce il mistero: tutto ciò che sta nascosto, e che neppure l’occhio del narratore può portare interamente alla luce; il Segreto, che, secondo Henry James, Wilkie Collins rivelò per primo, o quasi per primo. Il mistero non ha fine: il terribile sta sempre per avvicinarsi e a volte lo conosciamo come presente: ecco il sogno, l’incubo, l’inverosimile, la visione, i fantasmi, gli avvelenamenti: le apparizioni, anzi le Apparizioni; la misteriosa identità tra la vita e la morte. Sebbene Collins ami il caso, è probabile che il caso non esista, o che il destino appaia sotto forma di caso. Molto prima di Freud, egli rivela di continuo l’inconscio, spesso provocato dall’oppio, e di solito mascherato dalle abitudini sociali.
Come in Poe, in Dickens e in Delitto e castigo, la presenza ossessiva del mistero provoca un’egualmente ossessiva moltitudine di investigatori. Tra essi il più famoso è il sergente Cuff nella Pietra lunare: quest’uomo malinconico, con la mente spaventosamente lucida, il viso affilato come una scure, la pelle gialla, secca e avvizzita, le dita lunghe e sottili. Come tutti i grandi detective inglesi o americani, ha una passione: coltivare rose; anche Nero Wolfe, un secolo più tardi, coltiva orchidee. Le sue indagini sono assidue: all’estremo di una di loro c’è un assassino, all’altro una macchia di inchiostro; bisogna risalire, come faceva già Auguste Dupin, dalla macchia d’inchiostro all’assassino. Cuff lavora con una lente di ingrandimento: ha una prodigiosa intuizione: «Io non sospetto – dice. Io so»; gli altri personaggi e noi lettori non sappiamo cosa egli sappia. In realtà tutti i personaggi investigano: perché tutti gli esseri, prima Dio e poi il Dio-Collins, sono spie: le spie pedinano le spie; tutti scrutano, origliano, mettono l’orecchio a terra, guardano dai vetri delle finestre, viaggiano ed esplorano soltanto per spiare.
A volte le spie vivono lontano, in India, dove esiste il segreto religioso (c’è già l’India di Kipling): ma spesso vivono sotto casa, a Londra e nell’interminabile e misteriosissima provincia inglese, di cui Wilkie Collins ci rivela tutto, perché in ogni casa ci sono omicidi, complotti e fantasmi. Come in Dickens e in Dostoevskij Londra è «un’immensa lanterna magica», un labirinto spettrale, dove si possono compiere terrorizzanti «bagni di folla». Collins sa ogni cosa: cos’è un matrimonio inglese e scozzese: cosa sono le eredità, le leggi e il sistema giuridico: i ricchi, i liberali, il parlamento; cos’è lo sport, il canottaggio, la corsa, che rappresenta mirabilmente in Uomo e donna (1870), nella storia di Geoffry Delamaine questo tremendo idiota e criminale.
Con tutte le forze, Collins detesta il progresso inglese – come pochi, alla fine del diciannovesimo secolo.
Sempre straordinario nei libri di Collins è il sistema (o l’antisistema) romanzesco. Il narratore unico ed onnisciente viene disprezzato e abolito. Di pagina in pagina si alternano i narratori: ricchi, poveri, servi, domestici, pazzi: la verità e la realtà vengono raccontate molteplici volte: tutto è riflesso: diari e lettere vengono alla luce: dappertutto si ritrova la lezione del Tristram Shandy di Sterne; a volte i salti e i soprassalti sono violentissimi; le digressioni succedono alle digressioni, le divagazioni alle divagazioni.
Come in Carlo Emilio Gadda, la storia è un “infinito garbuglio”; e quasi sempre l’inverosimile è preferito al normale o al verisimile.
Amo moltissimo un romanzo pubblicato nel 1879: L’albergo stregato. Un mistero della moderna Venezia (traduzione di Umberto Ledda, Newton Compton, pagg. 192, euro 4,10).
Siamo in alcuni alberghi di Venezia, il Palace Hotel e il Danieli: nella notte si sente a distanza qualche gondoliere: dappertutto c’è l’aria di una tomba; più che a Henry James pensiamo a Frederick Rolfe, il Baron Corvo. Come dice un direttore d’albergo, ogni albergo è maledetto: «Che succede il mattino? Scopriamo un delitto, commesso molto tempo prima che l’edificio diventasse un albergo. E la sera, conosciamo un’altra morte sconvolgente e improvvisa». Tra un personaggio e il soffitto di una stanza si libra una testa umana – una testa tagliata, come separata dal corpo dalla lama di una ghigliottina. Il viso è scarnificato: la pelle ha assunto la tonalità cupa di una mummia egiziana. La testa sospesa comincia piano piano a scendere, diffondendo un odore nauseabondo. Le palpebre si sollevano. Gli occhi sono chiusi o offuscati: poi le palpebre si socchiudono posando lo sguardo sopra i presenti e i lettori. Per Wilkie Collins questo è un lieto fine: quel lieto fine che, secondo lui, si può conoscere soltanto dopo aver attraversato il Male Assoluto.