Affari&Finanza, 26 marzo 2018
Facebook, Apple, Amazon e Google i sette peccati dei feudatari del web
New York Assieme agli altri “feudatari del web”, come li chiama il sociologo dei nuovi media Evgeny Morozov, e assieme agli altri signori del hi-tech, Mark Zuckerberg, fondatore e chief executive di Facebook, aveva goduto per anni di una posizione insolita e privilegiata. Un senso di gratitudine, forse malriposto, da parte di miliardi di persone che si servono ogni giorno di strumenti digitali per semplificare la vita o intrattenere relazioni sociali, aveva dato a Zuckerberg e ai suoi colleghi uno status diverso da altri imprenditori di successo più tradizionali. Loro, i giovani miliardari della Silicon valley, sembravano immuni da critiche. Venivano considerati quasi dei semidei da una opinione pubblica incline a giustificare ogni errore o imbroglio, a chiudere gli occhi di fronte a ogni evasione fiscale o comportamento di dubbia eticità. Certo, a offuscare i giudizi c’era anche l’incredibile successo finanziario delle società hi-tech. <p>Arturo Zampaglione segue dalla prima C onosciute a Wall Street come Faang (che è l’acronimo di Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google), hanno visto crescere esponenzialmente utili e quotazioni (+40 per cento in un anno). Giovedì scorso, a dispetto dello scivolone di oltre 700 punti del Dow Jones, le Faang avevano una capitalizzazione complessiva di Borsa di quasi 3mila miliardi di dollari, cioè di un quarto del Nasdaq. Aggiungendovi anche il valore di Microsoft, la cifra arrivava a 3.633 miliardi di dollari (per capire l’ordine di grandezza, la Fiat Chrsyler capitalizza appena 32 miliardi). Già da qualche tempo si intravedevano incrinature nella immagine pubblica dei padroni del web.
Ma il vero Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei, è cominciato la settimana scorsa con lo scandalo della Cambridge Analityca. Basandosi su dati personali di 50 milioni di utenti sottratti a Facebook e sotto la regia di Steve Bannon, punto di riferimento della destra sovranista americana, la società inglese di consulenza politica ha dato un contribuito forse essenziale alla campagna elettorale di Donald Trump. Facebook era al corrente del problema dal 2015, ma non ha fatto nulla fino a quando la vicenda è finita sulle prime pagine dei giornali. Solo dopo essersi preso una settimana di riflessione, Zuckerberg è uscito allo scoperto, con un mea colpa pubblico e la promessa di maggiori controlli sulla privacy. Troppo poco e troppo tardi, hanno sentenziato analisti, investitori e persino il popolo del Web. Mentre scattava una campagna per cancellare gli account con l’hashtag #deletefacebook, le azioni Facebook sono crollate e si sono moltiplicate le inchieste di magistrati e parlamentari. Ma non è solo il gruppo di Zuckerberg a tremare. La realtà è che il caso Cambridge Analytica sta facendo da catalizzatore ad una serie di scorrettezze sistematiche commesse, quasi senza accorgersene, dal “feudalesimo hi-tech”. E adesso questi “sette peccati capitali” sembrano venire al pettine, ponendo ai padroni della rete una vera sfida esistenziale. Si moltiplicano infatti le richieste a livello politico di un “new deal” nei big data, capace di regolare l’accesso alle informazioni del pubblico anche a costo di offuscare l’immagine dei padroni del web. Su questi i “sette peccati” su cui si concentrano ora riflessioni, proposte (e tentativi di rivincita). Eccone una sintesi. 1) Scarsa tutela della privacy Il “business model” di social network e motori di ricerca ruota attorno alla capacità di raccogliere e poi sfruttare i dati personali degli utenti per messaggi mirati, analisi o pubblicità. Questo “sistema”, ovviamente, dipende dalle garanzie di privacy offerte al pubblico: sulla carta ci sono tante promesse, ma nei fatti, controlli e difese sono insufficienti. Di sicuro non impediscono i ricorrenti hackeraggi. E l’impressione degli esperti è che le società hi-tech investano troppo poco per la tutela, in personale e software. In alcuni casi, chiudono addirittura un occhio: come è successo proprio a Facebook che, quando anni fa ha capito che la Cambridge Analytica aveva acquisito i dati senza autorizzazione, ha solo chiesto di distruggerli (senza poi controllare) e non ha neanche informato gli utenti “scippati”. Adesso Zuckerberg promette di farlo: ma appare una conferma della superficialità dell’approccio, che ovviamente provoca la reazione irritata di 2 miliardi di utenti Facebook. 2) Propaganda politica È stato lo stesso Trump a vantarsi su twitter di aver sfruttato i social media molto meglio di Hillary Clinton e di quello che pensavano gli esperti. In effetti, non solo Facebook ha dovuto ammettere di essere diventato un canale privilegiato per la propaganda segreta pro-repubblicana orchestrata del Cremlino nelle ultime presidenziali, ma il caso di Cambridge Analytica ha evidenziato il modo in cui i consulenti politici britannici, pagati dal miliardario Robert Mercer e dalla figlia Rebekah, e ispirati da Bannon, si sono serviti dei dati personali sottratti al sociale network per inviare messaggi micro- mirati capaci di far leva sulla psicologia di milioni di elettori. Zuckerberg e i suoi collaboratori non si sono accorti di nulla: almeno dicono così. Ma il chief security officer, cioè il capo della sicurezza interna del gruppo, Alex Stamos, si è dimesso per protesta ben prima che scoppiasse lo scandalo. E ora la società di Menlo Park, in California, si sta attrezzando per proteggere da interferenze esterne le elezioni di midterm americane a novembre. 3) Elusione fiscale Operando nel mondo virtuale del web, le imprese hi-tech hanno avuto sempre la tendenza a considerare l’imposizione fiscale come una sorta di “optional”, come un “costo” da minimizzare con ogni mezzo. Finora la strada maestra è stata di convogliare gli utili in stati a bassa tassazione, come ha fatto la Apple con l’Irlanda, o dove potevano contare su aiuti specifici e spesso segreti, come Amazon in Lussemburgo. Ma dopo anni di conflitti, frustrazioni e multe, come quella di 16 miliardi all’Irlanda per il trattamento di favore alla Apple, l’Unione Europea ha proposto adesso una webtax: una tassa del 3 per cento sul volume d’affari dei servizi digitali. L’obiettivo: incassare 5 miliardi di euro e soprattutto ristabilire una equità nei confronti delle altre imprese, che oggi pagano mediamente in Europa una aliquota del. 23,2 per cento, rispetto al 9,5 delle società hi-tech. A dispetto dell’avversione che Trump ha sempre avuto per il mondo della Silicon valley, e in particolare per la Amazon di Jeff Bezos, la Casa Bianca si prepara però a contrastare la mossa europea, accusandola di essere protezionista e anti-americana. 4) Contenuti editoriali I giornali tradizionali hanno denunciato da sempre la prassi delle società hi-tech di rilanciare gratuitamente sui loro siti, articoli e contenuti di informazione originali prodotti da altre testate. Qualcuno ha parlato di furto. Il fenomeno ha accelerato le difficoltà dei media su carta stampata, che si sono trovati di fronte a una concorrenza sleale. Negli Stati Uniti sono stati persi negli ultimi 20 anni 20mila posti di lavoro nel settore giornalistico. 5) Infrazioni sul lavoro Il braccialetto elettronico brevettato da Amazon per facilitare la localizzazione dei prodotti da parte dei dipendenti è diventato un simbolo del tentativo sistematico dei colossi hi-tech di massimizzare il rendimento dei lavoratori, spesso a scapito delle norme di legge e di una serena attività produttiva. Certo, in questa fase i giganti del web sono quelli che assumono di più, ma le condizioni di lavoro spesso lasciano a desiderare. I signori del web si avventurano anche in altri comparti, come la sanità o le banche, senza particolari attenzioni per le regolamentazioni vigenti. 6) Pubblicità non trasparente È stato lo stesso Zuckerberg, nelle interviste che ha concesso (malvo-lentieri) dopo lo scandalo, a notare come la pubblicità sui social network non deve sottostare alle stesse regole della tv o della carta stampata. In effetti gli utenti di Facebook non sono in grado, oggi, di sapere chi paga per un certo messaggio mirato. In molti casi, come ad esempio durante le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, dietro alla pubblicità c’erano gruppi legati al Cremlino o i consulenti della Cambridge Analytica pagati da Trump. 7) Violazioni Antitrust La commissione europea cominciò nel 1993 le prime offensive contro la Microsoft di Bill Gates per il mancato rispetto delle norme della concorrenza. E da allora Bruxelles ha dovuto lavorare sodo: perché le aziende hi-tech hanno sempre cercato di approfittare indebitamente della loro posizione di mercato dominante. Un esempio? Google, che ha appena ricevuto dalla Unione Europea una multa di 2,7 miliardi di euro. Anche l’anti-trust americano ha aperto vari procedimenti contro Microsoft e vari altri giganti, senza però incidere veramente negli assetti societari dei “feudatari del web”