la Repubblica, 27 marzo 2018
L’amaca
Gli amici del bar, sghignazzando, dicono che è stata eletta presidente del Senato la zia di Mubarak.
Li rimprovero – per il rispetto che si deve alla seconda carica dello Stato – ma devo ammettere che la battuta mi è sembrata buona: migliore di quelle, volgarissime, che fanno di solito. Il più silenzioso comunque è A, che ha votato cinquestelle e da anni mi fa una testa così dicendomi (come se fosse colpa mia) che la sinistra è venduta, smidollata, trafficona, reggicoda di Berlusconi. Oggi beve il suo bianco e parla pochissimo.
Per sua fortuna non conosco la legge del taglione: potrei prenderlo per i fondelli per una intera legislatura, ma le parti in commedia, quando sono troppo prevedibili, producono un copione scadente. Mi riservo di trattarlo con affettuoso distacco.
Invece G, che non lo dice ma secondo me ha votato la Lega, è meno generoso di me.
Lo stuzzica ogni tre minuti, dice che lui, il reddito di cittadinanza ai terroni, non vuole pagarlo neanche morto. A si rianima e gli dice taci tu che stai con i fascisti.
Io allora tiro su i birilli e azzero il contapunti, una partita a boccette può aiutare a mettere pace.
Siccome vengo considerato saggio (non per mio merito, ma per demeriti altrui), dico a tutti e due che devono sforzarsi di andare d’accordo: «Il Paese è nelle vostre mani, ragazzi». Non faccio in tempo a dirlo che A, nervosissimo, sbaglia la bocciata e perde quattro punti.