Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018
Le elezioni in Egitto tra repressione e crescita economica
Tre giorni per votare. Se le urne in Egitto resteranno aperte fino a domani la ragione principale è evidente: cercare di raggiungere la massima affluenza in un’elezione il cui vincitore è già scontato; l’attuale presidente Abdel Fattah al-Sisi.
La definizione più efficace per descrivere le elezioni in corso in Egitto l’ha scritta il quotidiano panarabo al-Araby: «Al-Sisi contro Al-Sisi». Sarà dunque la cronaca di un plebiscito annunciato.Perchè al-Sisi ha fatto terra bruciata durante la campagna elettorale. E ora l’unico rivale, il businessman Moussa Moustafa, definito dai diversi media non egiziani al-kombares, la “comparsa”, sembra più un politico scelto tra i meno carismatici, (era un sostenitore di al-Sisi) pescato all’ultimo per conferire una parvenza di legittimità a un’elezione che di democratico non sembra aver più nulla.
Al-Sisi, 63anni,è entrato nella politica quasi 5 anni fa. Quando, alla testa dell’esercito, pose fine alla caotica esperienza di Governo dei Fratelli Musulmani, in quello che la maggior parte dei media ha etichettato come un colpo di stato militare. Le successive elezioni presidenziali del 2014, non trasparenti, furono un plebiscito: 97% delle preferenze. Ora ci si interroga se, dopo questa scontata riconferma, al-Sisi cercherà di abrogare la norma della Costituzione che pone un limite di due mandati per divenire un “presidente quasi a vita”. Non sarebbe certo il primo.
L’ultima campagna elettorale ha consolidato una deriva autoritaria in atto già da tempo. I media sono stati imbavagliati. Nelll’indice della libertà di stampa nel mondo redatta da Rsf l’Egitto è precipitato al 161° posto su 180. Uno dopo l’altro sono usciti di scena tutti i potenziali sfidanti. Sami Anan, il candidato dei Fratelli musulmani, movimento islamista che aveva trionfato alle elezioni del 2012 ma che era tornato fuori legge dopo il colpo di stato del 2013, è stato subito arrestato dopo l’annuncio della sua candidatura. La stessa sorte è toccata a Khaled Ali, avvocato per i diritti umani che si era presentato nel 2012, condannato a tre mesi per «offesa alla decenza pubblica» durante una protesta. Condanna ancor più severa per un altro candidato, il colonnello Ahmed Konsowa: sei anni. Il rivale più importante, l’ex premier Ahmed Shafik, è stato “convinto” a non candidarsi. Lo stesso è accaduto per l’ex capo di stato maggiore Sami Hafez Anan. Anche Mohamed Anwar el-Sadat, nipote dello storico presidente egiziano si è ritirato.
Questo il contesto in cui si svolge un voto importante in un paese strategico, il più popoloso del mondo arabo (97milioni). Che piaccia o no, al-Sisi è considerato da Stati Uniti, ma anche da Europa, un alleato necessario nella guerra contro il terrorismo. Pensare di trovare una soluzione alla crisi libica senza coinvolgerlo è un’illusione. Pur in principio disponibile per un negoziato che coinvolga tutte le parti, al-Sisi ha sempre sostenuto il generale libico Khalifa Haftar, un padre padrone della Cirenaica in conflitto con il Governo di Tripoli.
Al-Sisi ha sempre fatto del rilancio dell’economia la priorità. Ma è riuscito solo in parte a risolvere i gravi problemi che hanno messo in ginocchio l’economia dalla rivolta del febbraio 2011. Grazie anche a una serie di riforme strutturali, piuttosto dolorose per le fasce deboli – come l’aumento dell’Iva e l’abbattimento dei sussidi energetici e alimentari – l’attuale presidente ha riportato la crescita su livelli che non si vedevano da sette anni (lnel 2017 il Pil è salito del 4,5%, nel 2018 potrebbe arrivare al 5,8%). Le riserve in valuta pregiata sono tornate a livelli che non si vedevano da tempo. Al-Sisi è anche riuscito nel 2016 ad ottenere un prestito di 12 miliardi di dollari dall’Fmi. La disoccupazione, secondo il Governo, è diminuita.
Ma c’è anche il rovescio della medaglia. In un Paese che sta vivendo un boom demografico senza precedenti, ogni anno aumentano sempre di più i giovani che si affacciano sul mercato del lavoro. Per assorbirli sarebbe necessario un aumento medio del Pil del 7-8% per diversi anni. Le prudenti stime dell’Agenzia di statistica egiziana tratteggiano uno scenario sconsolante: oltre un quarto degli egiziani tra i 18 e i 29 anni sono disoccupati e, cosa ancor più frustrante, un terzo di loro ha un diploma universitario. Oggi l’Egitto è prigioniero di una spinta inflattiva che sta creando disagio e rabbia tra le crescenti fasce povere. Dal 2010 al 2015 gli egiziani che vivono sotto la soglia di povertà sono aumentati di un terzo ( sono il 28% ).
Al-Sisi sarà ancora il presidente dell’Egitto. E difficilmente i Paesi occidentali ricorreranno a toni duri per denunciare elezioni non certo trasparenti. Tra stabilità (corredata da lucrose commesse) e democrazia sembra proprio che Usa e Paesi europei, memori di quanto avvenuto dopo le primavere arabe, preoccupati per il terrorismo islamico e l’ondata migratoria, preferiscano chiudere un occhio in favore della stabilità. E degli affari.