Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2018
Il nodo pubblicità sul futuro del social
Non c’è dubbio: la pubblicità per Facebook è tutto. Insomma, quando si parla di pubblicità si parla del business model del social fondato da un Mark Zuckerberg che in questi giorni è corso ai ripari scusandosi (prima) pubblicamente e (due giorni fa) con una lettera sui quotidiani britannici e americani imputandosi di aver «tradito la fiducia» degli utenti per il “Datagate”, con l’uso di informazioni sui suoi utenti da parte della società di marketing politico Cambridge Analytica.
Un numero su tutti: il fatturato da advertising nel 2017 ha inciso per oltre il 98% sul fatturato totale (39,942 miliardi di dollari su un totale di 40,653 miliardi). Il resto, ma quindi poca roba, è imputabile a Payments & Other Fees revenue. È chiaro che gli strali immediati di Isba, l’organismo che rappresenta le maggiori agenzie pubblicitarie del Regno Unito, non sono passati inosservati a Menlo Park. Una voce che ha destato grande sorpresa è stata poi quella di Brian Action, cofondatore di Whatsapp, servizio di messaggistica acquisito proprio da Facebook nel 2014 per 19 miliardi di dollari. Il suo tweet «È ora, #deletefacebook» un impatto lo ha avuto e lo sta avendo, eccome. Elon Musk, solo per fare un esempio, ha cancellato le pagine di SpaceX e Tesla presenti sul social network, entrambe seguite da oltre 2 milioni di follower. E non è stato l’unico.
L’inizio della fine? Presto per dirlo. Quasi 40 miliardi di investimenti da far sparire non sono pochi. Inoltre, anche a concentrarsi solo sul caso Isba, l’associazione Uk ha chiesto chiarimenti, ma per ora senza prendere nessuna contromisura. «La maggior parte delle aziende con cui abbiamo parlato questa settimana è soddisfatta delle misure che abbiamo annunciato per proteggere al meglio i dati delle persone. Sanno che affronteremo queste sfide e ne usciremo migliorati, come partner e come azienda», dicono da Facebook.
Come andrà a finire sarà comunque tutto da vedere, anche perché è innegabile che Facebook si trovi dinanzi all’episodio più difficile da gestire della sua storia. Va detto a ogni modo che, seppur in tono minore, per Facebook il rapporto con il mondo degli inserzionisti pubblicitari è stato caratterizzato da qualche scivolone. A settembre 2016 il social fondato da Mark Zuckerberg ha dovuto ammettere un errore tecnico che faceva lievitare in modo artificiale il tempo trascorso dagli utenti sui video. Da qui la decisione di affidarsi al Media Rating Council per avere stime indipendenti. Nei mesi successivi Facebook è finita nuovamente all’indice con l’accusa di errori nella misurazione dei click sui post. A settembre 2017 vengono poi scoperte discrepanze tra i bacini dichiarati da Facebook sulla propria piattaforma e le popolazioni rilevate dalle ricerche nazionali censuarie. Insomma, tutti elementi che tratteggiano problemi per gli inserzionisti, alle prese con pianificazioni che rischiano di essere fatte su target sovrastimandone l’entità e quindi sottostimando i relativi costi per contatto. Individuate le falle, Facebook ha preso le contromisure. E questo evidentemente deve essere bastato visto che l’84% della pubblicità digitale mondiale è controllata da Google e Facebook, secondo una stima elaborata dal numero uno mondiale della pubblicità, Wpp. Alla fine, è innegabile che i messaggi “mirati” siano da sempre la merce più ambita dagli inserzionisti.