Il Messaggero, 25 marzo 2018
«Lavorare di fantasia è ancora la mia gioia». Intervista a Glauco Mauri
Per Glauco Mauri le favole sono una cosa seria. Talmente seria che «per tutta la vita non ho fatto altro che raccontarle», dice. A 88 anni parla del passato e del futuro come se fossero distesi su unico nastro del tempo. La sua intera vita è un archivio della memoria teatrale, come testimoniano le locandine appese alle pareti del suo studio, al piano terra di una magnifica palazzina nel quartiere Monti, a Roma: Re Lear e Riccardo III di Shakespeare, Il Bugiardo di Goldoni, le tre diverse edizioni del Faust di Goethe, Variazioni enigmatiche di Schmitt, Una pura formalità di Tornatore Il 28 e il 29 marzo al Teatro Palladium sarà protagonista, con Roberto Sturno, di En attendant Beckett: «Per me Beckett non è solo l’autore dell’Assurdo, ma quel grandissimo poeta che ha saputo raccontare la difficoltà del vivere». Intanto pensa già alla prossima stagione: «Mi sto preparando a interpretare I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Nel 1953 facevo la parte di Smerdjakov, adesso sarò il Padre». Il prodigio di quest’uomo dallo sguardo limpidamente azzurro, i folti capelli bianchi e il sorriso che sa d’infanzia, non sta però tanto nella longevità né nell’atletismo emozionale dell’attore. Quello che disorienta e attrae, parlando con Glauco Mauri, è l’ostinata inclinazione alla bontà. Sì, proprio alla bontà. Come dobbiamo chiamarla altrimenti? «Tutto ciò che è buono è bello, e non senza misura è la bellezza» diceva Platone.
Lei è davvero così buono come sembra?
«Sì. Il fatto di sapere comprendere mi porta a non detestare nessuno».
Proprio nessuno?
«Comprendere non vuol dire giustificare. Comprendere vuol dire faticare, mettersi nelle condizioni di dire: forse sono io che ho sbagliato. Mi manca il sentimento dell’odio. Non ho mai provato invidia. Ma non voglio con questo passare per santo. Ho tanti difetti».
Cosa non ama di se stesso?
«L’eccessiva acquiescenza. Qualche volta ripongo male la mia fiducia. Ma è sempre meglio una delusione che un rimorso».
Questa casa rappresenta per lei una stanzialità che ha fatto fatica ad accettare.
«Roberto Sturno ha trovato nel 2000 questa splendida palazzina all’interno della quale si poteva creare un appartamento per lui e la sua famiglia, uno per me, e anche lo studio della nostra compagnia. Quando ci misi piede la prima volta, mi prese un senso di angoscia. Non ero abituato a una casa vera. Fino a 70 anni ho sempre vissuto in albergo».
Sempre?
«Per moltissimi anni. Ho una casa a Pesaro, e all’inizio, quando sono venuto a Roma per frequentare l’Accademia Silvio D’Amico, dividevo una stanza con altri ragazzi. Poi, quando è cominciata la lunga epoca delle tournée, ho preferito avere una camera fissa all’Hotel Moderno, che era di fronte al Teatro Quirino. Quando l’hanno chiuso, sono stato l’ultimo a uscire. Dopo di che mi sono spostato all’Hotel Imperiale, a Via Veneto. Ma adesso è diverso. Roberto Sturno, la sua compagna e i loro figli sono la mia famiglia. In più, non potrei più fare a meno dei miei libri e dei miei dischi».
Che cosa resta di tutto quel dolore? Una ragazza in un logoro cappotto verde sulla banchina di una stazione, si chiede il protagonista de L’ultimo nastro di Krapp di Beckett. Lei ha mai lasciato un amore sulla banchina di una stazione?
«Ero molto giovane e ho dovuto scegliere tra una ragazza, Paola, la mia Paolina, e il teatro. Siamo ancora molto legati. Mi dispiace solo di non esserle stato più vicino quando è stata male».
Nel 1981 nacque la Compagnia Mauri-Sturno. Ancora prima, dal 1961 al 1964, lei fece parte della leggendaria Compagnia dei Quattro fondata da Franco Enriquez, con Valeria Moriconi e Mario Scaccia, a cui si aggiungerà Emanuele Luzzati.
«Ricordi bellissimi. Debuttammo con Il Rinoceronte. Nel 1962 Eugène Ionesco venne a vederci a Milano. Si innamorò del nostro lavoro e, dopo lo spettacolo, per una intera settimana venne a cena con noi. Finché una sera prese il mio copione e mi chiese se poteva dare uno sguardo ai tagli che avevamo fatto al testo. L’indomani me lo restituì e io non ci pensai più. Alcuni mesi dopo, un mio amico venne a trovarmi in camerino, aprì il copione e disse: Accidenti che bello!. Non mi ero accorto che Ionesco mi aveva fatto una dedica: a Glauco Mauri, che mi ha fatto conoscere il mio personaggio meglio di quanto lo conoscessi io».
Recentemente, lei ha interpretato Edipo Re (con la regia di Andrea Baracco) e Edipo a Colono, da lei stesso diretto. L’eroe tragico di Sofocle è un uomo che cerca la verità, anche se questa sua ostinata investigazione si rivelerà per lui fatale. Quale è stata la sua ricerca di vita?
«Ho cercato tutta la vita di rendere felice chi amavo. Non sempre ci sono riuscito».
Quando ha capito che le era destinato il palcoscenico?
«Ero un ragazzino molto goffo e mi trovai a fare il suggeritore in un teatrino parrocchiale di Pesaro. Finito il liceo, mi trasferii a Roma per fare l’Accademia d’arte drammatica. Ma avevo anche una bellissima voce: se ne accorse un professore di Santa Cecilia quando allestimmo l’Aminta del Tasso ai Giardini di Caserta. Fu lui a telefonare a Silvio D’Amico per dirgli che se avessi voluto studiare come tenore, avrei anche potuto ottenere una borsa di studio. D’Amico lasciò decidere a me. Io scelsi il teatro».
Mai avuto un ripensamento?
«Mai. Raccontare le favole ti aiuta a capire la vita, che è un viaggio a volte meraviglioso, a volte terribile. Passare dalla malinconia di Zio Vanja alla tragica solitudine di Edipo, dalla poesia di Shakespeare alla drammatica tenerezza di Beckett, mi ha aiutato ad arricchirmi di umanità».
La cosa che la fa più soffrire?
«Vedere persone intellettualmente, oppure solo fisicamente, forti approfittarsi dei più deboli».
Come le parlano oggi I Fratelli Karamazov?
«È un processo sconvolgente. È una tale costellazione di stelle che scegliere sarà difficile (in questo caso, la regia sarà di Matteo Tarasco). Lo sto rileggendo e sono completamente immerso nelle terribili verità di Dostoevskij».
Nella sua casa paterna c’erano tanti libri?
«Non ce n’erano tanti. Io sono nato in una famiglia molto povera. Ma ho avuto un’infanzia luminosa, proprio grazie alla povertà, intesa nel senso più nobile del termine. Non ho conosciuto mio padre perché è morto quando avevo solo 9 mesi. Avevo due fratelli più grandi, di 10 e 11 anni. Mia madre faceva l’infermiera, aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare, ma era una donna di grande intelligenza e saggezza. È stata lei a darmi quella grinta luminosa che mi è servita ad avere il coraggio di essere quello che sono. Mi ha insegnato che bisogna sempre essere disposti a dirsi: se voglio, posso cambiare tutto».
Si sente mai solo?
«Sono stato molto solo da ragazzo, quando i miei fratelli erano partiti per la guerra e ho passato tutti quegli anni, dal ’40 al ’44, senza di loro. Sono stati anni difficili. Per fortuna che mia madre era una donna coraggiosa. Una volta disinnescammo una bomba che avevamo trovato dentro la nostra casa. Avevo 13 anni».
Cosa è la gioia per lei?
«È la gioia di commuovermi anche alla mia età. È la gioia di lavorare con la mia fantasia. Non sono uno stupido. So di essere al tramonto della vita, ma non penso mai al domani come a una cosa chiusa. Penso sempre che posso diventare migliore, come attore e come uomo».