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 2018  marzo 26 Lunedì calendario

Bill Murray: «Non sarei qui senza John Belushi. Ma la fama è un lavoro e io sono troppo pigro»

NEW YORK È stato divertente ieri sera, no?». Bill Murray è reduce dalla première la notte precedente al Metropolitan Museum di New York per L’isola dei cani, il film di animazione stile “stop motion” del regista Wes Anderson, al quale ha prestato la voce. Ma alla festa, mentre all’esterno la neve beffava la primavera, Murray ha fatto molto di più: si è divertito a suonare i tamburi insieme ai musicisti giapponesi che hanno animato la serata.

Una collaborazione, quella tra Anderson e Murray, ormai consolidata: dopo Rushmore del 1998 hanno lavorato insieme senza sosta per I Tenenbaum (2001), Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004), Il treno per il Darjeeling (2007), Fantastic Mr. Fox (2009), Moonrise Kingdom (2012) e Grand Budapest Hotel (2014).

«Non avevamo nemmeno un copione quando abbiamo cominciato L’isola dei cani. Anzi, non l’ho mai visto. È come con Woody Allen. Ma mi fido di Wes.

Ci sono delle persone che ti chiamano e tu dici “A che ora vengo e che mi devo mettere?”.

Wes per me è uno di quei registi. Lui e Jim Jarmusch».

Alla festa, intorno a Murray, entusiasti, c’erano le altre “voci” del film, in sala in Italia dal 17 maggio: Frances McDormand con il marito Joel Coen, Tilda Swinton, Harvey Keitel, Jeff Goldblum e gli sceneggiatori Jason Schwartzman (attore e cugino di Sofia Coppola, che diresse Murray in Lost in translation nel 2003, per cui Murray venne candidato agli Oscar) e Roman Coppola.
Attore, scrittore e musicista, a 67 anni Murray sembra pensare soprattutto alla tournée e con la sua band “Bill Murray, Jan Vogler & Friends”: violino, violoncello, pianoforte e l’attore che canta, parla, recita.
Perché questo progetto?
«Perché mi diverto tantissimo.
La band si chiama New Worlds ma a volte la chiamano Bill Murray & Friends, abbiamo un album al primo posto nelle classifiche di musica classica, suoniamo diversi tipi di musica.
Il pubblico non sa cosa aspettarsi e noi lo sorprendiamo, anche per la formazione: il violoncellista Vogler è di Berlino est, la pianista Vanessa Perez è venezuelana, la violinista Mira Wang è cinese.
E io, americano, sono sempre lì a cercare di convincere tutti questi comunisti della gioia del capitalismo e della democrazia, ma non sempre ci riesco!».
Come è nata la band?
«Ho conosciuto Vogler su un aereo, il violoncello era nel sedile accanto a lui, siamo diventati amici. Lui e la moglie Mira hanno detto: “Potremmo mettere su una band e andare in giro!”. E così è stato. Ma i geni musicali sono loro, io mi limito a seguirli».
E lei non suona?
«Giusto qualche tocco alla campana o al timpano, per il resto canto e parlo. La musica fa parte integrante della mia vita, mi ritrovo a canterellare da solo Stephen Foster, Gershwin, magari saltellando per strada. È la terapia perfetta».
Su di lei gira voce che non vorrebbe mai lavorare, ovvero recitare. E che non risponde al telefono, ogni tanto nemmeno a Wes Anderson.
Il segreto della sua carriera da “recluso”?
«Beh, stando alla voce, se glielo dicessi dovrei ucciderla.
Non è vero che sono difficile da scritturare; io cerco di fare una cosa alla volta, senza lasciarmi strattonare a destra o a sinistra da troppe cose».
Cosa cerca in un copione, in un nuovo progetto?
«Non cerco niente, non ho una strategia, tantomeno idee.
Mi piace invece essere afferrato, voglio che un copione mi intrighi, e lo capisco dalle prime due pagine. Se non mi piace subito lo butto via, non perdo tempo a leggerlo!».
Per “L’isola dei cani” a convincerla sono state le metafore politiche e sociali del film?
«Wes ci lavorava da anni, aveva iniziato prima ancora che la politica diventasse quella che è oggi, quindi per me ogni metafora sulla situazione attuale è una coincidenza. Non puoi più prevedere cosa succederà da un giorno all’altro. Mi ricorda molto il periodo del Watergate.
Vedremo. In giro c’è un livello molto alto di divisione e antagonismo che non aiuta nessuno. La gente deve capire che dobbiamo andare più d’accordo fra di noi, siamo andati troppo oltre».
Che rapporto ha lei con i cani?
«Ho sempre avuto cani nelle mie case. Ricordo Peppy, poi Chevy, un pastore color liquirizia.
Poi ho avuto un terrier che faceva delle acrobazie fantastiche da circo. Ora abbiamo un cane mezzo Jack Russell terrier intelligentissimo. Si chiama Tim ma lo chiamiamo Timmy».
Lei è molto amato dal pubblico, ma è molto schivo, ha un rapporto conflittuale con la fama. È difficile essere Bill Murray?
«Essere famoso non è per tutti, è una cosa che non consiglio a nessuno, perché è un lavoro extra da 24 ore al giorno, e non puoi abbassare mai la guardia.
Magari stai camminando per strada pensando a chissà che cosa e improvvisamente sei costretto a essere Bill Murray».
Quale crede sia l’idea più sbagliata sul suo conto?
«Che io sia molto organizzato.
Sono un casino d’uomo».
Nonostante tutto il successo ottenuto c’è qualcosa che le manca?
«Dovrei scrivere di più, davvero, e non lo faccio. Io so scrivere, e se sai scrivere devi farlo.
Mi sento in colpa. Pigrizia? Forse».
A proposito di fama, a Los Angeles c’è un ristorante dove servono hamburger con un cartello che dice “Bill Murray mangia gratis qui”. È vero?
«Quando vado lì non ho certo intenzione di pagare! Lascio una mancia ma non pago. A parte gli scherzi, sono stato molto fortunato nella mia carriera ad essere arrivato dopo grandi personaggi che hanno fatto da rompighiaccio per tutti noi, da John Belushi a mio fratello Brian, fino a Harold Ramis (suo partner in Ghostbusters nel 1984, ndr), gente più coraggiosa di me.
E posti come Second City e Saturday Night Live sono stati palestre straordinarie.
Se sopravvivi è come diplomarti alle medie e al liceo, e poi vai avanti per conto tuo. Senza quella gente non sarei qui. E non mi darebbero hamburger gratis!».