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 2018  marzo 26 Lunedì calendario

«Così Cambridge Analytica si è insinuata anche nella politica italiana». Intervista a Christopher Wylie

LONDRA «L’unico paese europeo di cui so per certo che ha lavorato con Cambridge Analytica è l’Italia».
Capelli rossi e piercing al naso, il “whistleblower” dello scandalo Facebook conferma a Repubblica le indiscrezioni dei giorni scorsi. «Ho deciso di parlare perché l’opinione pubblica deve sapere», dice Christopher Wylie, lo scienziato 28enne autore della soffiata che fa tremare il gigante del web e il mondo politico in più di un continente. «Ma il colpevole – avverte – non sono i big data, bensì il modo in cui vengono utilizzati a nostra insaputa».
Oltre alle campagne per Trump negli Usa e per la Brexit in Gran Bretagna, c’erano altri paesi e partiti europei fra i clienti di Cambridge Analytica?
«Ricordo vari progetti in Europa, so che hanno fatto qualcosa in Italia, anzi l’Italia è l’unico di cui so con certezza, ma non rammento per quali partiti. Io mi occupavo dell’America, non sono stato direttamente coinvolto nel vostro paese».
E c’erano italiani dentro Cambridge Analytica?
«Ce n’era uno. Non lavorava direttamente per Cambridge Analytica bensì “con” Cambridge Analytica: era il collegamento con l’Italia. Ma non so come si chiamava».
Di cosa è colpevole la società di cui lei era dipendente?
«La società che ho contribuito a fondare, preciso, non si limitava a usare big data raccolti illegalmente per manipolare elezioni: creava fake news, corrompeva politici, comprometteva candidati con prostitute».
Quando ha deciso di rompere e denunciarli?
«Quando ho capito che non era soltanto un posto per uno scienziato ma aveva un’agenda politica, quella di Steve Bannon e del suo finanziatore Robert Mercer, entrati a farne parte dopo di me».
E Facebook? Mark Zuckerberg chiede scusa: è abbastanza?
«Facebook guarda allo scandalo come a una questione di pubbliche relazioni. Se fosse davvero preoccupato delle vulnerabilità del suo social network, avrebbe accettato la mia offerta di parlare con loro.
Invece mi hanno cancellato il profilo, mi hanno fatto scomparire, come se fossi io il colpevole».
Lei è favorevole alla campagna #deleteFacebeok, cancellatevi da Facebook?
«Per niente. Non voglio dover scegliere tra avere una democrazia o rinunciare alla tecnologia: abbiamo diritto a entrambe. Ma bisogna regolamentare l’uso dei big data».
Entrare nei social media è un patto col diavolo? Ci danno gratis un meraviglioso strumento e noi gli diamo l’anima?
«Jobs diceva: se un prodotto è gratis, il prodotto sei tu. Ma la vita moderna sarebbe impossibile senza Google, Facebook, app, e-mail. I Big data sono come le utenze: non possiamo farne a meno.
Abbiamo bisogno dell’elettricità, ma se i fili sono scoperti rischiamo di prendere la scossa.
Lo stesso vale per il web: entrarci non è un patto col diavolo, il punto è cosa i social sono autorizzati a fare con i dati».
Si sente il nuovo Edward Snowden? In fondo con le vostre soffiate rivelate la stessa cosa.
«C’è una grossa differenza: Snowden ha rivelato come la Nsa e la Cia ci controllano segretamente, io rivelo come veniamo manipolati fraudolentemente da società private. Ma pubblico e privato, in questo campo, si mescolano. Gli algoritmi di psicografica che Cambridge Analytica usa per le campagne elettorali vengono dagli studi che ha fatto per i ministeri della Difesa negli Usa, in Gran Bretagna e in altri paesi per prevenire l’estremismo. Il confine fra ricerche di mercato e controllo della popolazione svanisce».
Le piace il serial tv Black Mirror sul lato oscuro della tecnologia?
«Sì, certo».
È quello il futuro verso cui ci porta Big data?
«I dati in se stessi non sono il problema. Anzi, hanno un sacco di potenziale per rendere il mondo ancora migliore e la vita quotidiana ancora più facile. Big data è solo uno strumento. Come un coltello. Può servire per cibarci e può servire per uccidere. Dipende come lo usi».