la Repubblica, 24 marzo 2018
Quelle balene soffocate dal legame di famiglia
ROMA Qualunque cosa gli riservi il destino, un gruppo di delfini lo affronterà insieme. Anche se si tratta di uno spiaggiamento, e quindi di morte quasi certa.
Erano 150 gli esemplari di balena pilota (si tratta in realtà di un tipo di delfino chiamato anche globicefalo) che hanno perso l’orientamento e si sono ritrovati goffamente insabbiati sulla spiaggia di Hamelin Bay, costa sud-occidentale dell’Australia, 315 chilometri a sud di Perth. Solo una decina è riuscita a riprendere il largo. Gli altri hanno potuto usufruire al massimo delle cure palliative dei veterinari per non soffrire troppo. Gli abitanti di queste zone sono abituati a eventi del genere. Sempre ad Hamelin Bay 80 balene pilota finirono sulla spiaggia nove anni fa. Un secolo esatto è passato da quando mille esemplari persero la vita sulle sabbie della Nuova Zelanda.
In questa stagione i cetacei tornano dalle acque antartiche ricche di cibo per trascorrere l’inverno a latitudini più miti. Le associazioni locali organizzano corsi per insegnare alla popolazione ad aiutare i cetacei in difficoltà. Ma ieri la spiaggia, dove già l’odore era insopportabile, è stata chiusa al pubblico anche per il rischio che gli squali si avvicinassero alle carcasse. E di fronte alla strage di Hamelin Bay resta solo da chiedersi il perché.
Il maltempo, forse. Sulla zona in sta insistendo il ciclone Marcus e i delfini, che hanno bisogno di respirare ogni 30-40 minuti, sono ostacolati dalle masse di acqua in movimento vicino alla superficie, che interferiscono con le loro comunicazioni. Oppure le spiagge sabbiose che risalgono dolcemente, lasciando ai cetacei l’impressione di trovarsi ancora in mare aperto. Poco consistenti, questa volta, le imputazioni contro l’uomo, in genere accusato per l’uso di sonar sulle navi, soprattutto militari.
Ma al di là delle ragioni contingenti, c’è una spiegazione di fondo che sta dietro a tutti gli episodi di spiaggiamento di massa. «Questi animali sono estremamente sociali» sottolinea Ilaria Biagiotti, del Gruppo di Acustica Marina del Cnr-Ismar ad Ancona. «Hanno un linguaggio sviluppato, perfino dialetti diversi da gruppo a gruppo. Danno un valore estremo ai legami familiari. Se un individuo, per qualunque ragione, si dirige verso una spiaggia, loro non lo abbandonano. Lo seguono anche se questo vuol dire morire».
Poggiato il corpo da una o due tonnellate sulla sabbia, il destino del delfino è pressoché segnato.
«Per la prima volta scoprono la forza di gravità. Lo sterno, che non è abituato a sorreggere il corpo, si schiaccia. Respirare diventa proibitivo» spiega Biagiotti. A discolpa dell’uomo, questa volta, c’è anche la storia. Sulle ragioni dello spiaggiamento dei delfini si interrogava già Aristotele. E nel realizzare l’autostrada panamericana, gli operai cileni scoprirono i fossili di decine di cetacei spiaggiatisi fra i 6 e i 9 milioni di anni fa. Anche se alcune esercitazioni marittime militari sono state legate in maniera diretta a un danno degli organi interni dei cetacei, e quindi al loro spiaggiamento, è probabile che solo un mix di cause riesca a spiegare una morte collettiva così enigmatica. Perfino la Nasa sta cercando di capire se le tempeste solari che alterano il campo magnetico terrestre giocano un ruolo nel disorientare i cetacei. Esistono dissuasori acustici per allontanarli dalle spiagge a rischio, ma sono al livello di test iniziali. La spiegazione “sociale” del gruppo che resta unito nella buona e nella cattiva sorte resta la più fondata.
«Per i pesci – spiega Biagiotti – vivere in banchi vuol dire nascondersi dai predatori. Per i cetacei è una ragione di vita».