L’Economia, 26 marzo 2018
La vecchia Europa metterà le briglie a Facebook & Co?
Decine di miliardi di capitalizzazione perdute in Borsa settimana scorsa. L’ammissione di colpa di Mark Zuckerberg fondatore di Facebook. E per il mondo del web è cambiato tutto. Aver permesso a una società, la Cambridge Analytica di entrare nella miniera dei dati che il social network custodisce per conto dei clienti, e soprattutto disinteressarsi di che cosa l’azienda consigliata da Steve Bannon, ex nume ideologico di Donald Trump, ne avrebbe fatto, è probabilmente uno di quegli errori che finirà nei libri di storia.
Come il diesel gate
A cambiare saranno sicuramente profondamente Facebook e il suo approccio ai clienti. Vale a dire noi con altri quasi 2,5 miliardi di persone al mondo. Ma anche il futuro del gruppo dei titani del web, come sono stati definiti da l’Economist. Cambridge Analytica sarà probabilmente per Internet quello che è stato lo scandalo dei dati truccati diesel per il mondo dell’auto. Con un elemento in più di non poco conto: l’Europa aveva già mandato forti segnali di insofferenza nei confronti dei colossi della Rete. E soprattutto ha varato un Regolamento generale sulla protezione (GDPR)che entrerà in vigore il prossimo 25 maggio, nonostante qualche caveat, farà da battistrada nel mondo per mettere più di un paletto allo strapotere dei big.
Facebook, Google, Amazon e, sebbene su fronti e con modalità diverse di business, anche Microsoft e Apple, hanno pensato che potesse bastare una forte attività di lobbying a Bruxelles e nelle capitali del Vecchio Continente per stoppare l’onda che stava montando. Come spesso accade, si sono concentrati sulla difesa del business, senza tenere nel dovuto conto le implicazioni politiche e sociali del loro agire.
La storica opacità nel trattamento dei dati personali, in particolare nella profilazione dei clienti ha permesso loro di consolidare un potere che sembrava crescente e inattaccabile. Anche perché basato su un «sì» generico degli utenti al trattamento dei dati. Ma che si è trasformato nell’uso di quelle informazioni per arrivare a creare per ognuno di noi profili da «sfruttare» sul mercato della pubblicità e dell’ecommerce in cambio di un servizio falsamente inteso come gratuito, tipo un indirizzo mail o la possibilità di connettersi con la propria comunità.
C’è troppo spesso un innegabile abuso delle norme sulla privacy sia pure in presenza di un
via libera dell’utente chiamato a dare il proprio «ok» a farraginose e incomprensibili schermate di condizioni poste alla base dell’uso dei servizi. Un approfittarsi dei cosiddetti «bias cognitivi», aggravati dalla mancanza di adeguate campagne di comunicazione sul reale utilizzo dei
dati dei propri clienti. O sull’esistenza di diritti degli stessi utenti, aumentando la consapevolezza di questi nell’uso delle piattaforme.
Poteri
Maggiore consapevolezza che avrebbe potuto permettere il passaggio da una piattaforma all’altra. Passaggi estremamente rari, non solo per la «vischiosità», cioè la difficoltà cognitiva nel poterlo fare (siamo in presenza di servizi tecnologici che richiedono livelli di apprendimento seppur minimi, e che l’utente del web tende a fidelizzarsi alla piattaforma cui è abituato a ricorrere per i vari servizi in Rete). Ma anche perché non essendo a precisa conoscenza dei dati che ha fornito più o meno consapevolmente l’utente medio non sa di che tipo di uso chiedere conto o quali dati chiedere di cancellare e cosa no.
La conseguenza è stata un aumento del potere di mercato di chi ha potuto usare quei dati, vale a dire le grandi piattaforme del web che hanno consolidato da sole e congiuntamente una posizione di quasi monopolio se è vero che riescono a intercettare i quattro quinti della pubblicità nuova che viaggia via Internet. Su questo l’Europa, come dimostra l’azione della commissaria alla Concorrenza Margrethe Vestager nei confronti di Google accusata da pratiche illecite, è stata molto incisiva, facendo emergere come i dati collezionati e «impastati» rendessero difficoltoso se non impossibile entrare sul mercato con offerte alternative.
L’Europa riuscirà con le nuove regole del Gdpr a essere altrettanto incisiva? Di sicuro Facebook, Cambridge Analytica e tutti gli altri attori che lavorano con i nostri dati avrebbero dovuto sottostare a procedure molto più stringenti. A cominciare dal fatto che i servizi offerti in cambio di informazioni sul nostro conto devono essere protetti e soprattutto che tutti i consensi necessari devono essere ottenuti. Come accade adesso, si dirà. Non del tutto.
La differenza è che le aziende dal 25 maggio in poi avranno l’obbligo di dimostrazione della liceità del loro agire. Non si tratta solo quindi di norme burocratiche, anche perché sono accompagnate da sanzioni pesanti. L’Europa è molto severa basti ricordare i 13 miliardi inflitti a Apple o la minacciata multa per quasi 2,5 miliardi a Google. Non si tratta quindi di norme astrattamente severe, soprattutto quando la sanzione può arrivare fino al 4% del fatturato. Certo non ci si deve fare molte illusioni sul GDPR. Il Regolamento vale solo per l’Europa e i cittadini europei. Le sue protezioni non si estendono ad altri grandi ordinamenti o mercati e relativi cittadini, dall’America alla Cina all’India alla Russia al Sudamerica. Questo frammenta il quadro internazionale in tutele di serie A, B e C. Ma l’Europa potrebbe farsi promotrice di un’armonizzazione con regole nel segno di modelli pro-user, visto che l’utente è la parte debole nel rapporto con le piattaforme.
Esiste infine un tema di contenimento del superpotere dei titani del web. E qui si potrebbero immaginare sia misure tese a imporre loro comportamenti pro-concorrenziali sia misure strutturali.
Soluzioni possibili
Sul primo versante si potrebbe fare in modo di rendere disponibili i dati raccolti su una piattaforma, se l’utente lo desidera, ad altre compagnie, in modo da rendere più facile il passaggio da una società all’altra. Cosa che peraltro già avviene normalmente nel settore bancario. E perché non immaginare che lo sharing dei dati, la condivisione possa essere funzione della dimensione della società interessata? Più grande il gruppo, maggiore la quantità di informazioni da condividere.
Sul fronte strutturale si dovrebbe potere attingere alle normative e all’esperienza storica dell’Antitrust adeguandole alla nuova situazione di mercato, con un approccio orientato, anzitutto, a bloccare eventuali acquisizioni che possano impedire l’arrivo di nuovi competitor. Si pensi solo ai recenti passaggi di Instagram a Facebook e di Waze a Google. In estrema istanza, poi, si potrà ripensare (badando a non frenare l’innovazione) misure di deconcentrazione strutturale, attraverso separazioni delle società operative controllate da un medesimo web titan.
Probabilmente non siamo in presenza di un’Internet che l’editorialista del Financial Times John Thornhill ha definito un cesspit (qualcosa di molto simile a un letamaio), ma la vicenda di Cambridge Analytica ha fatto capire che è tempo che le regole del web escano dagli studi degli avvocati e dalle stanze di ingegneri e lobbysti per approdare a quelle della discussione pubblica. Ne va non solo del funzionamento efficiente del mercato bensì anche della salute democratica della società.