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 2018  marzo 26 Lunedì calendario

Tre cambiali (da 70 miliardi) per un governo

Quando e se un governo si formerà, se sarà rispettoso della volontà degli elettori, tre 
cose dovrebbe fare: mandare le persone in pensione prima; stanziare più soldi per i poveri; far pagare meno tasse a famiglie e imprese. Questi tre obiettivi sono infatti presenti, anche se diversamente declinati, sia nel programma del Movimento 5 Stelle sia in quello del centrodestra e in particolare della Lega. Realizzarli tutti costa decine di miliardi l’anno e si tratterebbe di una spesa strutturale. Certo, ci sono diversi modi per riformare la Fornero, dar vita a un reddito di cittadinanza e arrivare alla flat tax, primo fra tutti quello della gradualità e selettività degli interventi. Ciò non toglie che a regime, fosse anche dopo cinque anni, cioè la durata di una legislatura, si avrebbe appunto un aumento permanente delle uscite annuali che, a voler essere prudenti e fidandosi delle indicazioni dei partiti vittoriosi (che per esempio contano sul fatto che la flat tax a regime si finanzi da sé con la crescita dell’economia), è dell’ordine di 40 miliardi di euro. 
Conti in tensione 
Quindici miliardi costa infatti a regime il reddito di cittadinanza, secondo le stime dell’Istat, e a questi si dovrebbero aggiungere altri due miliardi, spiega il Movimento 5 Stelle, per potenziare i centri per l’impiego e rendere gestibile il sussidio che, nelle intenzioni dei grillini, dovrebbe aiutare ben nove milioni di persone. A questi 17 miliardi se ne devono aggiungere una ventina ogni anno che sono i risparmi garantiti mediamente dalla riforma delle pensioni Fornero, secondo i calcoli della Ragioneria generale dello Stato. 
Discorso diverso per la flat tax, cioè l’aliquota unica Irpef, che la Lega vorrebbe al 15% e Forza Italia al 23%. Aprirebbe, il primo anno, secondo quanto ammette lo stesso Silvio Berlusconi, un buco di «circa 30 miliardi» nelle entrate che però appunto verrebbe azzerato a regime con l’aumento del Pil. 
Se le formazioni guidate da Luigi Di Maio e Matteo Salvini dovessero governare insieme, il conto da onorare potrebbe essere insostenibile, perché difficilmente una delle due formazioni vorrà cedere rispetto alle sua priorità: il reddito di cittadinanza per Di Maio, la flat tax e l’abolizione della Fornero per Salvini. Il conto potrebbe invece essere più leggero se l’esecutivo escludesse uno dei due vincitori (parliamo quindi delle ipotesi centrodestra e Pd oppure M5S e Pd) perché inevitabilmente qualcuna delle «priorità» finirebbe in secondo piano. Il conto potrebbe inoltre alleggerirsi nel caso si arrivasse a un «governo del presidente» sostenuto più o meno da tutti i partiti che, necessariamente, dovrebbe fare una tara alle richieste. 
Qualunque sarà il governo cui si arriverà (e questo vale anche se si dovesse andare di nuovo al voto) c’è però già una cambiale da onorare, lasciata in eredità dagli esecutivi Renzi e Gentiloni. Si tratta delle cosiddette «clausole di salvaguardia», cioè di quelle voci di aumento delle entrate, in particolare Iva e accise, che il governo uscente ha posto a garanzia della tenuta dei conti, per ottenere di anno in anno il via libera di Bruxelles alla manovra. Una pratica di comodo purtroppo utilizzata da tutti i governi, di centrodestra e centrosinistra, dal 2011 in poi: si costruisce la manovra, si vede quanto manca per tenere il deficit nei limiti richiesti dalla Commissione europea negli anni successivi e, per accontentare Bruxelles, si completa il menù degli interventi dicendo che aumenteranno le aliquote Iva e le accise sui carburanti. Poi, l’anno prima che le clausole scattino, il governo trova le misure alternative (tagli di spesa, entrate diverse o, come fatto negli ultimi anni, maggior deficit) per evitare gli aumenti previsti. 
La prossima manovra 
Quelle attualmente pendenti, rimodulate con la legge di Bilancio 2018, e che toccherebbe al prossimo esecutivo disinnescare, prevedono l’aumento di due aliquote dell’Iva: quella ordinaria del 22% passerà al 24,2% dal primo gennaio 2019, al 24,9% dal 2020 e al 25% dal 2021; l’aliquota agevolata del 10% salirà invece all’11,5% dal 2019 e al 13% dal 2020. Per impedire questi aumenti bisogna trovare 12,5 miliardi di euro per il 2019 e 19,2 miliardi per il 2020 (comprensivi di 350 milioni per cancellare il previsto incremento delle accise sui carburanti). In tutto, 32 miliardi per il prossimo biennio. Ai quali aggiungere le solite spese improrogabili, dal finanziamento delle missioni militari ai contratti pubblici, tanto che, a bocce ferme, per la manovra 2019 servono già una ventina di miliardi. 
Se questa è la situazione, che spazio può esserci per tutte le altre promesse dei vincitori delle elezioni? Eppure, tanto per fare qualche esempio, i 5 Stelle hanno appena rilanciato sul loro blog il piano da «17 miliardi per la crescita demografica dell’Italia»: sostegni per il babysitting e per l’acquisto dei prodotti per l’infanzia e per i dispositivi e le protesi per la terza età (Iva agevolata al 4%); più fondi agli enti locali per gli asili e per l’assistenza alle famiglie; bonus di 150 euro al mese per tre anni dalla fine della maternità per le donne che rientrino al lavoro; più detrazioni per colf e badanti; aumenti delle indennità di maternità. 
Più deficit per tutti 
Alla spesa di 17 miliardi l’anno si arriverà nell’arco della legislatura, precisa il Movimento, che però tra le fonti di finanziamento ipotizza anche un aumento del deficit pubblico. Al quale probabilmente bisognerebbe far ricorso anche per le altre proposte dei 5 Stelle: 50 miliardi di investimenti pubblici in 5 anni; riduzione delle aliquote Irpef e niente tasse fino a 10 mila euro; «riduzione choc» del cuneo fiscale e dell’Irap per le pmi; «aumento delle risorse per la sanità pubblica» e per la scuola. Oppure per finanziare altre misure scritte nel programma, questa volta del centrodestra: via le tasse su donazioni, successioni, bollo auto e risparmi; aumento delle «pensioni minime e pensioni alle mamme»; «raddoppio dell’assegno d’invalidità»; «piano straordinario di riqualificazione delle periferie» e via dicendo. Di deficit in deficit.