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 2018  marzo 26 Lunedì calendario

La guerra dei 20 anni, specchio (spietato) di una nazione

Quella di Telecom non è solo una tormentata storia industriale e finanziaria. È molto di più, è una perfetta metafora del Paese. Nel bene: l’intuizione imprenditoriale pubblica delle origini, l’espansione all’estero, l’innovazione nel mobile e nella fibra ottica, eccellenze e competenze in ordine sparso. E soprattutto nel male: l’illusione che un debito elevato possa essere facilmente ripagato senza penalizzare gli investimenti, l’ingerenza del potere pubblico e dei partiti forse più insidiosa dopo la privatizzazione, una prateria aperta alle scorrerie di ogni genere di cordata, una governance ancora oggi modesta, le porte spalancate agli stranieri.
Del resto, quella che fu considerata nel 1997 come la «madre di tutte le privatizzazioni», rappresentò il prezzo pagato dal Paese, con l’accordo Andreatta-Van Miert, per entrare nell’Unione monetaria. Una privatizzazione imposta dall’elevato debito pubblico che trovò il capitalismo italiano privo di capitali ma non di appetiti. 
Nocciolini e capitani 
Il gruppo Agnelli entrò nel cosiddetto «nocciolino» iniziale di azionisti di riferimento (6 per cento) con una quota irrisoria, sbagliando anche a scegliere il presidente: Gian Mario Rossignolo definito da Fabiano Fabiani, amministratore delegato di Finmeccanica, un «estraneo al business». Il primo di una lunga serie. La debolezza dei grandi gruppi lasciò spazio alle avventure. Eminentemente speculative come quella della cordata dei cosiddetti «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno con qualche stagione, troppo breve, di tentativi industriali. Un’operazione di mercato, quella dei «capitani coraggiosi», da centomila miliardi di lire. Un’offerta pubblica, sostenuta da Mediobanca e dal centrosinistra di governo ansioso di apparire aperto e liberale, che però caricava fatalmente il gruppo di un debito gigantesco. Questa volta privato e non più pubblico, e difficilmente comprimibile, al servizio del quale Telecom, oggi Tim, si è via via rimpicciolita, vendendo pezzi pregiati e trasformandosi, nei rapporti con i concorrenti, da cacciatore in preda. Con una catena di controllo troppo lunga, causa di fragilità proprietaria e di costi supplementari. 
Da Tronchetti a Vivendi 
Gli scalatori vendettero poi a Pirelli e Benetton nel 2001, alla vigilia dell’11 Settembre, e se ne uscirono con una lauta plusvalenza. La gestione Tronchetti fu sfortunata nei tempi ma improntata a un progetto industriale, a un’idea di media company. Non mancarono mosse discutibili (come l’acquisto delle cosiddette minorities in contanti per 15 miliardi e la fusione con Tim). Telecom fu osteggiata dal governo Prodi, ma il debito, seppure di poco, scese. La verità di Tronchetti su così sofferto – che costò agli azionisti Pirelli due miliardi («Un errore, può ca- pitare» disse Gilberto Benetton) – è con- tenuta nel libro di Carlo Bellavite Pellegrini (Il Mulino 2015). Altre analisi sono fortemente critiche sulla sindrome di Telecom, che compra e mangia se stessa, a sostegno di azionisti che in quegli anni, specie nella gestione Tronchetti, si sarebbe ampliata. E si arriva, con la ritirata di Mediobanca e Generali nel 2013, all’ingresso della spagnola Telefonica, e poi all’irruzione della francese Vivendi, oggi insidiata dal fondo attivista Elliott. 
Fino al bilancio del 2000 i conti erano in lire. Nel ‘98 Telecom aveva un fatturato di 48 mila miliardi di lire, un Ebitda del 47,2 per cento e un debito di quasi 16 mila miliardi di lire che sarebbe balzato, dopo l’Opa dei record a circa 37 mila nel 2000. Il debito netto avrebbe poi sfiorato, nel suo massimo, i 40 miliardi di euro nel 2005 per poi scendere gradualmente, nel 2017, a 25 miliardi, con un Ebitda del 39,3 per cento e ricavi per quasi 20 miliardi. Nel ‘98 il debito era meno di un terzo del fatturato. Oggi è quasi una volta e mezzo. La Telecom pubblica si espanse in Brasile, Argentina, Turchia e in altri Paesi. Oggi è soltanto Italia e Brasile. 
Una fibra forte 
L’ex monopolista ha dovuto ovviamente lasciare spazio a una concorrenza agguerrita della quale il consumatore si è avvantaggiato. Nel fisso la quota dell’incumbent era nel 2010 ancora del 72 per cento, oggi è al 54. Nel mobile Tim ha il 30,7 per cento del mercato, Vodafone il 30,3. Il gruppo nato con la fusione tra Wind e Tre è al 35 per cento. Un mercato estremamente competitivo nel quale è annunciato l’arrivo in estate dell’operatore low cost francese Iliad. E dunque i margini tendono a comprimersi per tutti. Ma nella fibra Telecom è ancora di gran lunga il primo operatore e nell’Internet veloce cresce a ritmi superiori alla concorrenza. 
Il futuro assetto del gruppo è legato anche alla disponibilità espressa dall’attuale amministratore delegato Amos Genish, di separare la rete. L’effetto sul patrimonio varierà a seconda della scelta della struttura finanziaria nel quadro regolatorio italiano ed europeo. Una scissione e una successiva quotazione in Borsa della rete sul modello Inwit, la società che raggruppa le torri di trasmissione, potrebbe essere una soluzione percorribile, visto anche l’interesse a investire nel settore dei fondi strutturali stranieri. Un’ipotesi in tal senso è contenuta in uno studio di Mediobanca Securities. Il tema del futuro proprietario della rete coinvolge anche il destino incerto di Open Fiber, creata da Enel, su pressione del governo, per favorire connessioni più veloci e avanzate. 
Cornucopia per tanti (non tutti) 
Investire in Telecom è stato conveniente in tutti questi anni? Se guardiamo alla quotazione al momento della privatizzazione, equivalente in lire a 5,67 euro, e la confrontiamo, seppur grossolanamente, con quella attuale intorno a 0,8 (il minimo è stato di 47 centesimi nel 2013) la risposta non può che essere negativa. Ne sono usciti, al contrario, molto bene, i troppi manager, scelti a volte con criteri discutibili. Negli ultimi cinque anni si sono succeduti quattro amministratori delegati mentre la durata media di un capo azienda nel settore in Europa è di 5-6 anni. Flavio Cattaneo, che aveva fatto risalire la redditività, è stato congedato dopo 15 mesi con 25 milioni di euro. Non possono lamentarsi nemmeno le banche d’affari e la schiera infinita di consulenti a vario titolo. Per loro Telecom ha rappresentato una splendida cornucopia. Monta, smonta, rimonta. Se sommiamo i costi delle consulenze e delle prestazioni professionali, estratti dai bilanci consolidati Tim/Telecom dal 2005 al 2016, arriviamo alla cifra di 4 miliardi 751 milioni. Erano 530 milioni nel 2005, sono scesi a 186 nel 2016. Per quanto riguarda l’andamento delle commissioni finanziarie passive, nel medesimo periodo, sempre dai dati consolidati, tocchiamo 852 milioni. Ora si apre un nuovo capitolo di una vicenda nella quale ritroviamo mischiati a casaccio virtù e difetti del Paese.