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 2018  marzo 22 Giovedì calendario

Cairo guadagna il 23% in Borsa, De Benedetti invece perde il 40%

Cairo guadagna ancora: +24% in Borsa nell’anno 
«Cairo mi piace. È il tipo che quando esce da una stanza spegne la luce». Parola di Giovanni Bazoli ai tempi in cui Banca Intesa doveva decidere se affiancarsi all’editore nell’impresa, all’epoca giudicata temeraria, di andare alla conquista del Corriere della Sera, l’ammiraglia della stampa italiana destinata, salvo correzione di rotta, ad esser ingoiata nella palude dei debiti. Una voce di corridoio, certo, ma che ha il pregio di riprodurre l’atmosfera che circolava in via Solferino prima che Cairo, uomo prudente, si lanciasse nella grande avventura. Sotto la pressione finanziaria crescente i manager non potevano far altro che sacrificare i pezzi pregiati, (immobili e libri, in particolare), mentre la compagine azionaria (divisa e spesso litigiosa) sembrava incapace di avviare un piano di risanamento anche perché le banche creditrici sembravano più attente a rientrare che non a sostenere la ripresa del gruppo. 
Storie di ieri, per fortuna superate di slancio, prima e meglio del previsto, come risulta dai conti a fine 2017. Il gruppo ha archiviato il primo bilancio “pieno” della gestione di Urbano Cairo (alla guida dall’agosto 2016) con un utile netto di 71,1 milioni di euro contro i 3,5 milioni del consuntivo d’esercizio firmato dopo soli 4 mesi alla guida del gruppo, comunque in netto miglioramento rispetto ai 171 milioni abbondanti di perdite. Si torna a guadagnare, finalmente, ma l’assemblea in programma il prossimo 26 aprile utilizzerà i profitti per ripulire le perdite accumulate in passato, tappa necessaria per recuperare l’autonomia finanziaria. Il dividendo arriverà. 
Insomma, anche in un momento molto difficile per l’editoria si può tornare a crescere. Come? Spegnendo la luce quando si esce dalla stanza, per usare l’immagine pseudo bazoliana che si addice a pennello alle abitudini di Urbano Cairo da Masio Monferrato, figlio di un rappresentante e di un’insegnante, tanto audace da telefonare, ancora studente in Bocconi, a Silvio Berlusconi per proporsi come suo collaboratore. Ma anche capace di tagliare con la scure i costi: meno 58 milioni in un solo anno, una stretta feroce che è già entrata nella leggenda. 
Sarebbe però un grave torto attribuire tutti i meriti alla scure che si è abbattuta sui costi. Certo, ricavi sono scesi a 895,8 milioni contro 968,3. Ma la raccolta pubblicitaria, in costante calo dal 2011, ha segnato finalmente un’inversione di tendenza che lascia ben sperare. Purché dopo la stagione dei tagli prenda velocità quella del rilancio perché, parole sue, «un’azienda puoi risanarla quanto vuoi. Se non sviluppi i ricavi non vai da nessuna parte». 
Alcune mosse, al proposito, lasciano ben sperare ma i mercati si aspettano che il presidente del Torino Calcio, pur senza follie, faccia qualcosa di più. 
Ma per ora, però, gli azionisti si accontentano: il titolo Rcs Mediagroup in un anno ha guadagno il 24 per cento circa. Niente di eccezionale, vista la stagione brillante di Piazza Affari. Ma basta guardare ai concorrenti di Gedi (quasi -40 per cento) per apprezzare la guida di Urbano Cairo, uno che non ama gli strappi ma va avanti come un diesel. 
Ugo Bertone


De Benedetti invece seguita a perdere: -40% 
Prima le tasse non pagate che hanno affondato i bilanci del 2017. Adesso i sospetti di una truffa all’Inps sul prepensionamento dei dirigenti.
Non sono certo giorni facili in casa De Benedetti. Il gruppo editoriale raccolto intorno a Repubblica, molto caro all’Ingegnere, procede a slalom fra problemi con il ministero delle Finanze e ora con l’Inps. Ieri ha ricevuto la vista della Guardia di Finanza. C’è un sospetto di truffa che diventa ancora più amaro considerando che Tito Boeri è stato direttore scientifico della Fondazione Rodolfo De Benedetti fino al 28 marzo 2015 quando fu chiamato da Renzi a guidare l’ente di previdenza. 
Insomma un brutto pasticcio per il quotidiano di cui Tito Boeri è stato anche apprezzato editorialista. Ma soprattutto causa di nuovi imbarazzi per una casa che fatto della legalità e del rispetto delle regole la cifra di comportamento e anche la chiave del successo in edicola. Altri tempi. Ora invece i lettori si stanno assottigliando e, contemporaneamente vengono fuori comportamenti su cui la Procura di Roma ha acceso un faro. Un’altra tegola dopo la condanna per evasione fiscale. La pena è stata patteggiata con il pagamento di 175,3 milioni. Uno sconto sulla condanna di 388,6 milioni. Che brutte storie per un’azienda che aveva sempre affermato la propria diversità rispetto all’Italia alle «vongole». Ora rischia di finire nel piatto fumante. 
L’inchiesta della magistratura parte da una segnalazione degli ispettori dell’Inps. I sospetti nascono dalla girandola di fusioni (ultima delle quali con la Stampa) con ha portato a Gedi. Le variazioni di perimetro, secondo l’accusa, venivano sfruttate per cambiare anche i ruoli dei dirigenti. Circa 200 sono stati incentivati a scendere di un gradino per diventare quadro e talvolta anche poligrafico. In questa maniera potevano andare in cassa integrazione e poi essere prepensionati a spese dell’Inps. Il danno presunto per l’ente presieduto da Tito Boeri è di una trentina di milioni. 
Naturalmente le accuse andranno provate. Ma certo la situazione non è comoda. Soprattutto dopo la multa per le tasse non pagate nel 1991 al momento della fusione fra Repubblica e la Cartiera di Ascoli. Un’altra operazione fatta con troppa disinvoltura. La notizia della perquisizione è costata un ribasso del 4,73% al titolo Gedi a 0,483 euro. Lo scivolone porta al 40% il ribasso in un anno. La caduta che si sta trasformando in valanga considerando che metà del ribasso (20%) è stato realizzato nell’ultimo mese. Spaventa soprattutto il terremoto che ha coinvolto un gruppo che per quarant’anni si era distinto per la stabilità: due direttori dopo Scalfari, un paio di amministratori delegati. Lunghe presidenze. Adesso sembra il bar di Guerre Stellari: vice direttori che vanno via dopo tre mesi, forse perchè non hanno ottenuto la direzione. Eugenio Scalfari che litiga con Carlo De Benedetti che, a sua volta, incassa la censura del figlio Rodolfo. Un blasone che si appanna. I lettori che si fanno meno numerosi. 
Nino Sunseri