Il Messaggero, 23 marzo 2018
L’occasione di ridisegnare il commercio mondiale
Gli Stati Uniti hanno esportato sicurezza e crescita economica nel corso di circa quarant’anni: quelli della guerra fredda con l’ex Unione Sovietica. Caduto il muro di Berlino gli americani sono stati gli alfieri della globalizzazione. Ma la globalizzazione è stata in larga parte un gioco di specchi. L’unica merce veramente globalizzata è stata la moneta e il capitale come flusso e non come investimento.
Il fiume della finanza circolava e circola in un letto pieno di scogli, paracarri, dighe e tutto travolge inarrestabilmente dopo le decisioni angloamericane della fine degli anni ottanta del Novecento (presidenza Clinton e premierato Blair) di sregolare i mercati finanziari e di privatizzare le banche abolendo la distinzione tra banche d’affari e banche commerciali e dando così vita alla finanza distruttrice dei derivati e delle collateralizzazioni dei debiti. Il tutto mentre, per decisione di Bill Clinton, e quindi della finanza sregolatrice che governa la classe politica americana con un sistema lobbystico unico al mondo, si è consentito alla Cina di entrare nel Wto senza di fatto nessuna contropartita.
Le conseguenze sono state terribili. Il mondo è stato invaso da merci a bassissimo contenuto di valore e ad alta aliquota di distruzione dell’ambiente e della sostenibilità.
La deindustrializzazione era l’inevitabile conseguenza di questa inaudita misura dettata solo dall’interesse finanziario e speculativo dei manager occupati solo a massimizzare il valore delle loro stock option e delle grandi banche d’ affari. Si sono così poste le basi per la distruzione della stessa potenza americana. I dati del commercio mondiale sugli scambi tra Stati Uniti e Cina sono eloquenti e implacabili. La Cina è il primo partner commerciale degli Stati Uniti, con un terribile sbilanciamento a favore di Pechino: nel 2017 il commercio bilaterale ha raggiunto i 636 miliardi di dollari, con 130 miliardi di dollari di esportazioni americane e 506 miliardi di importazioni, con un surplus di 376 miliardi a favore di Pechino. Donald Trump è determinato a ridurre tale squilibrio usando come argomento la minaccia alla sicurezza nazionale e la violazione della proprietà intellettuale attraverso massicci trasferimenti di tecnologie americane alle élite belliciste cinesi. Nel frattempo, per anni, l’Unione europea si è incartata in un’inutile discussione sul se definire o meno quella cinese una economia di mercato. E adesso teme le misure di Trump che sono invece dirette a difendere anche la stessa Europa che si è privata nel tempo di quell’esile protezionismo selettivo che ne caratterizzò gli inizi fondativi, quando la cultura industriale prevaleva su quella finanziaria e speculativa.
Ora tra le classi dominanti e tra la tecnocrazia europea, sempre più oligarchicamente protesa a un liberismo amministrato dall’alto delle procedure e lontano dalla sana competizione tra imprese, si diffonde la paura e l’angoscia dinanzi all’attivismo neo protezionistico positivo di Trump e altro non si sa fare che battere i pugni e minacciare ritorsioni, dimenticando che l’Europa non può fare a meno degli Stati Uniti. E in ogni caso cooperare con l’America è meglio che competere dinanzi all’aggressività cinese. Gli Stati Uniti hanno iniziato minacciando dazi sull’acciaio. L’Europa ha strillato senza mai dire ciò che noi italiani abbiamo detto invece sin da subito con Antonio Gozzi, presidente di Federacciai. Ossia che il pericolo che ne deriva per l’ Europa e per l’Italia da quei dazi scaturisce dal fatto che l’acciaio che rimbalza contro gli scudi nord americani finirebbe in Europa, danneggiando forse per sempre la nostra industria. Da un lato si ignora la concorrenza fraudolenta dell’acciaio cinese ed asiatico, dall’altro ci si preoccupa solo di chiedere l’esenzione della Unione europea dalle misure nord americane. Sarebbe questo invece il momento di cogliere l’occasione per ridefinire tutta la politica mondiale doganale e del commercio approfittando del salutare scossone che Trump ha dato a un sistema insostenibile e che a lungo andare potrebbe portare alla distruzione vera e propria non solo dell’industria, ma dello stesso sistema sociale occidentale. È bene che si prenda atto che in questa nuova partita il nemico è la Cina. L’Europa deve capirlo prima che sia troppo tardi.