la Repubblica, 23 marzo 2018
Quando il made in Italy era la pittura
Prima del Bacio, Francesco Hayez è un giovane allievo dell’Accademia di Belle arti di Venezia che disegna nudi dalla grazia eroica mentre sogna Roma, le antichità classiche, la grande pittura di Raffaello. «Chi mi vedeva allo studio e poi in compagnia, avrebbe trovato due uomini ben diversi» scriverà nelle sue memorie. Fra le aule umide della laguna conduce le sue ricerche matte e disperatissime su soggetti già moderni. Mescola storia e mito, ragione e sentimento. Ludovico Cicognara, presidente dell’accademia veneziana segnala il talento del ragazzo all’amico Antonio Canova, che è sovrintendente dell’Accademia di San Luca a Roma. Canova si attiva, Hayez vince una borsa di studio. Nel 1809 giunge in città. Ha solo diciotto anni. L’Urbe lo accoglie superba. È la capitale europea della cultura, eccitata da scavi e scoperte. L’entusiasmo del Grand Tour vibra ancora nell’aria. E l’Accademia di San Luca è, ai suoi occhi, il luogo dove i giovani vengono gratificati. Ci sono concorsi e premi, lezioni e mostre, ma soprattutto incontri che possono cambiare la vita. Canova lo farà con lui, così come in passato Anton Raphael Mengs, il guru del neoclassicismo europeo, aveva favorito lo scultore Pacetti, nell’ambito di una gara difficile sul tema della morte della regina delle Amazzoni fra le braccia di Achille. Anche Angelika Kauffmann, arrivata da Coira, dopo aver visitato Milano, l’Emilia e Firenze, aveva stretto a Roma legami importanti con lo stesso Mengs, Batoni e Piranesi; per lei fu cruciale la conoscenza in Accademia di Winckelmann, che la introdusse alle famose collezioni del cardinale Albani.
Nella sua casa-atelier, vicino Trinità dei Monti, Angelika accoglieva la crema degli intellettuali, in una specie di piccola costola dell’accademia.
Goethe ci passò e lei non mancò di ritrarlo. Ma proprio la presenza della Kauffmann, conferma la dimensione internazionale e lungimirante di un ente che fu crocevia di figure di spicco della cultura, nato con l’obiettivo pedagogico di creare relazioni virtuose e accogliere tutti i giovani autori intenzionati a perfezionarsi. La doppia vocazione emerge bene lungo il percorso della mostra Da Raffaello a Canova, da Valadier a Balla. L’arte in cento capolavori dell’Accademia Nazionale di San Luca allestita a Perugia (fino al 30 settembre) nelle sedi di Palazzo Baldeschi e Palazzo Lippi Alessandri. Curata da Vittorio Sgarbi e Francesco Moschini, racconta l’evoluzione nei secoli di una delle più antiche istituzioni artistiche italiane e delle sue raccolte, cresciute grazie a lasciti di accademici o collezionisti privati, con opere emerse dai concorsi o doni di sostenitori.
Quadri, sculture e disegni, datati in un arco di tempo che spazia dal Cinquecento al contemporaneo, sono testimoni delle tendenze di ogni epoca, ma tradiscono un gusto dominante da parte di accademici, presidenti o principi.
«La sua dipendenza dallo Stato Pontificio spiega il criterio dominante di uno stile aulico e solenne – dice Sgarbi – gli artisti votati a Dio e al Papa dovevano farsi interpreti di soggetti eterni e valori assoluti». Non stupisce che uno dei suoi simboli sia il Putto attribuito a Raffaello entrato nei fondi accademici nel 1834 per legato testamentario del pittore e collezionista francese Jean-Baptiste Wicar, e considerato dagli adepti di San Luca un inno al “bello ideale”.
Super-accademico è anche il nudo scorticato di San Bartolomeo del Bronzino, esercizio di virtuosismo anatomico, a suo tempo elogiato da Vasari. Molti giovani scultori dell’Accademia presero invece come modello una terracotta dello scultore fiammingo Jean de Boulogne, il Giambologna, realizzata forse come studio per la fontana dell’Oceano nel Giardino di Boboli. Fa sorridere che alcune opere appartenute alle raccolte capitoline confluirono, a Ottocento inoltrato, nelle gallerie dell’Accademia di San Luca per via dei soggetti licenziosi che Gregorio XVI preferì insabbiare nei depositi accademici. Fra queste, un’immagine di Davide e Betsabea, opera di Palma il Giovane, vagamente lasciva nella posa dell’eroina biblica. Stesso iter per uno strappo di affresco del Guercino con Venere e Amore, donato al Papa dagli eredi del conte Aldrovandi e dirottato subito in Accademia. Se fra i grandi fiamminghi del Seicento brillano i nomi di Rubens e van Dyck, commuove una piccola tela di genere di Michael Sweerts, esempio di artista nordico calato a Roma per dissetarsi alla sorgenti dell’antico.
Chi trasse particolare beneficio dall’elezione accademica fu Giuseppe Valadier, grande architetto, che grazie al favore di Pio VI divenne responsabile di incarichi pubblici prestigiosi, dalla Camera apostolica alla fabbrica di San Pietro. Fra i moderni, colpisce la presenza in cattedra di Antonio Mancini, genio ribelle della pittura di inizio secolo, fortissimamente voluto a Roma da Giulio Aristide Sartorio che credeva nel suo talento sorgivo, nelle sue ombre caravaggesche.
I “signori” dell’Accademia fecero opposizione, conoscendo il carattere indocile del personaggio. Ma in anni in cui, col boom delle avanguardie, l’Accademia aveva perso la sua luce mistica, la linfa di Mancini poteva segnare finalmente una svolta verso la modernità.