la Repubblica, 23 marzo 2018
L’amaca
Tra la gratuità di Facebook e i settanta miliardi di patrimonio personale del suo proprietario c’è uno smisurato spazio vuoto. Che cosa ci sia esattamente in quello spazio vuoto (ovvero quanti e quali siano i meccanismi di produzione di un così sterminato guadagno, che fa impallidire i patrimoni del capitalismo classico) non è molto chiaro. Introiti pubblicitari e compravendita di dati: grosso modo. Poi le defiscalizzazioni concesse da molti Stati (Italia compresa) per “attirare lavoro” comunque in quantità molto inferiore a quello perduto con la delocalizzazione dell’industria (a sua volta frutto di altre defiscalizzazioni…). Poi il lievitare insondabile degli investimenti finanziari.
Ma alla base della piramide resta, come un abbaglio epocale e mondiale, il bengodi della gratuità, il “non si paga!”
dell’esproprio proletario stavolta elargito dal Padrone in persona, ore, giorni, notti di connessione fino a stripparsi di schermate, di post, di mipiace.
Ogni clic è la goccia di un oceano di profitti strettamente privati: l’unica cosa non social dell’universo social. Che non si cavi il sangue dalle rape, era credenza degli avi contadini: si cava, si cava, e le rape siamo noi. Ci vorrebbe un nuovo Marx per ricalcolare daccapo il plusvalore, l’accumulazione del capitale, la divisione del reddito. Rinascerebbe la lotta di classe, ripartirebbero la politica e la storia.