La Stampa, 23 marzo 2018
Nella Silicon Valley tradita. Rabbia e sconcerto tra i dipendenti in California dopo lo scandalo dei dati rubati: Zuckerberg pensa solo a far soldi
Il day after della Silicon Valley lascia la sensazione che Facebook così come lo conosciamo non esista più. Dall’esplosione dello scandalo sono passati cinque giorni. Quattro dei quali in pressoché totale silenzio da parte di Zuckerberg. Troppi.
«E pensare che fino a poco tempo fa l’unica cosa di cui ci si lamentava era il commuting», dice Michael. Il nome è di fantasia: lui a Facebook ci ha lavorato due anni, poi è passato a Uber, ma preferisce rimanere anonimo. Il pendolarismo di cui parla è quello che porta ogni giorno centinaia di dipendenti che si ostinano a voler abitare a San Francisco a farsi 50 minuti di navetta aziendale – ma con wifi! – per raggiungere Menlo Park, dove c’è il quartier generale. «Non tutti vogliono trasferirsi nella Silicon Valley. A fine anno, nel questionario interno di soddisfazione dei dipendenti, la richiesta era sempre la stessa: avere l’ufficio in città. Mark, ovviamente, non ci ha mai sentito». Michael ora va a lavorare a piedi ed è felicissimo. «Non ha mai pronunciato la parola “pubblicità” mentre ha ripetuto quattro volte “comunità”. Forse si crede di essere ancora ad Harvard». Il ragazzo seduto vicino a me nel bar dell’Hotel Aloft, a dieci minuti dal quartier generale, di fronte al Dumbarton Bridge, sta commentando l’intervista che Zuckerberg sta dando alla Cnn, quella dove per la prima volta, se si esclude il post sulla sua bacheca postato qualche ore prima, ammette gli errori, chiede sommariamente scusa e presenta alcune novità per la gestione dei dati. In questa specie di motel per nerd ricchi mi ci ha mandato Melinda – altro nome di fantasia – dicendo che lì avrei potuto ascoltare conversazioni interessanti tra executives e investitori. Lei lavora come digital storyteller per una compagnia che tra i suoi clienti ha avuto anche Facebook. «Sta venendo giù il muro. Prima nessuno osava criticare la compagnia, ora la gente parla. È una crisi enorme, ma è un guaio in cui Zuckerberg ci si è cacciato da solo. Facebook non è una tech company come le altre: manipola emozioni. La gente si sposa, divorzia, fa figli sulla piattaforma. E Mark per primo è quello che ha sempre condiviso tutto della sua vita: le foto con Priscilla, le due figlie, il cane. Per la gente è un amico. Solo che è anche a capo di un’azienda il cui unico scopo è fare soldi. Tanti. E questo grazie a una gestione che è sempre stata spietata. Non cattiva, perché lui non è una persona malvagia, ma solidamente mirata al guadagno». Che è poi quello che fanno tutte le aziende della Silicon Valley. «Tutte vogliono essere Facebook. E molte, tante fanno soldi vendendo i dati. È il loro modello di business: nessuno si scandalizza. C’è una differenza tra la reazione di chi vive e lavora qui e il resto del mondo che si sente tradito dall’amico Zuckerberg. Li capisco, hanno ragione. Ma l’amico e il Ceo senza scrupoli sono due posizioni in contrasto: gli è andata bene fino a oggi, da ora in avanti sarà impossibile per lui ricoprile entrambe. La gente si sente ingannata, non compresa. D’altronde il suo problema è sempre stato questo: Mark ha evidenti limiti di empatia. Gli è difficile capire le ragioni altrui. È un buon padre di famiglia, è un uomo con ideali sinceri, è un capo esigente ma non crudele, ma è ambizioso e completamente incapace di mettersi nei panni degli altri. Questa crisi spazza via le ambizioni politiche sue e di Sheryl Sandberg, forse l’unica persona che esce da questa settimana peggio di lui».
Lanny J Davis è un avvocato, dal 1996 al 1998 consulente speciale di Bill Clinton. Soprattutto, è un «crisis manager», uno che aiuta individui e aziende a comunicare in momenti di difficoltà. «La cosa da fare subito era convocare una conferenza stampa con 500 giornalisti – dice – e chiedere pubblicamente scusa, ammettere tutto, errori e mancanze». Secondo lui il fatto che Zuckerberg ci abbia messo così tanto a parlare è dovuto solo a debolezza umana. «Lo vedo ripetersi in continuazione, da Richard Nixon a oggi Donald Trump. Di fronte a uno scandalo l’atteggiamento automatico è pensare: se parlo, do materiale ai giornalisti, alimento la bestia. Se non ne parlo, se faccio finta che non esiste, allora si risolverà da solo. Niente di più sbagliato. Eppure, è un errore che commettono tutti. Conosco personalmente Sheryl Sandberg e ho molto rispetto per Zuckerberg e per ciò che ha creato. Ritengo la sua compagnia una risorsa per tutto il mondo. Ma questa è una crisi grossa, così grossa che potrebbe metterne in pericolo l’esistenza. Certo, una trasparenza parziale è meglio che niente, ma il grosso strappo in termini di fiducia e di immagine del brand rimane. Ricucirlo non sarà facile, ci vuole tempo e la garanzia che certi errori non si ripeteranno più. Gli investitori intanto fanno pressioni perché non sono contenti di come è stata gestita la questione e c’è il rischio che la leadership di Zuckerberg sia messa in discussione, ammesso che non lo sia già». Lui, intanto, si è detto favorevole a una possibilità di regolamentazione e pronto a testimoniare davanti al Congresso. «Sarò felice di farlo se sarà la cosa giusta da fare», ha detto alla Cnn. «Chissà se per l’occasione indosserà giacca e cravatta», commenta la signora del tavolo a fianco. È qui per accompagnare il figlio a visitare il campus dell’Università di Stanford. «Ha voti ottimi, ma non abbiamo molte speranze», dice con fare tipico da mamma. Con un gesto gli sposta il cappellino per il verso giusto. «Chi può dirlo? Magari sarà lui il nuovo Zuck». Il ragazzo non distoglie gli occhi dal cellulare, ovviamente aperto sul social network. «Non credo che la compagnia in sé subirà grandi danni», dice ancora Melinda. «È diventata troppo parte integrante della nostra vita. Magari ci sarà un calo nell’utilizzo, ma la gente non lo abbandonerà. E per il semplice motivo che non c’è una vera alternativa. Ecco il vero paradosso di questa crisi: la gente offesa dal comportamento di Zuckerberg critica, si indigna e promette boicottaggi. Ma dove fa tutto questo? Ovviamente su Facebook».