la Repubblica, 22 marzo 2018
Così Steve Bannon azionò l’algoritmo tre anni prima del ciclone Trump
NEW YORK Dopo giorni di silenzio, Mark Zuckerberg esce allo scoperto. In un post su Facebook, il fondatore del social network si assume le responsabilità di quel che è accaduto e spiega come la Cambridge Analytica, la società londinese di consulenza politica, sia riuscita a impadronirsi, e poi a sfruttare a fini elettorali, i dati di 50 milioni di americani. Elenca anche le misure che il colosso adotterà a difesa della privacy di 2 miliardi di utenti. Obiettivo: «Ricostruire la fiducia». Ma sono passi tardivi, quelli di Zuckerberg. Non solo il colosso ha perso a Wall Street già 50 miliardi di dollari (e il giovane fondatore ne ha persi quasi 9); non solo sono state aperte inchieste governative e procedimenti giudiziari di class action in vista di risarcimenti miliardari, ma crescono la rabbia del popolo di Facebook e i timori dei politici per il ruolo che Steve Bannon, l’ex stratega sovranista di Donald Trump, ha avuto nell’intera vicenda.
Secondo le ricostruzioni del canale televisivo britannico Channel 4, la Cambridge Analytica è nata soprattutto grazie all’iniziativa (e a 15 milioni di dollari di finanziamenti) del miliardario Robert Mercer e della figlia Rebekah, che da sempre sostengono i settori più conservatori del partito repubblicano. E proprio Rebekah, 44 anni, molto legata a Bannon e alla sua ex testata Breitbart News, aveva voluto che l’ideologo diventasse vicepresidente della società inglese. Così, tre anni prima delle presidenziali americane, Bannon cominciò, attraverso i dati raccolti da Londra, a costruire profili dettagliati di milioni di elettori americani su cui testare l’efficacia di messaggi populisti. Poi nel 2016 la Cambridge Analytica fu incaricata dall’organizzazione elettorale di Trump, guidata sempre da Bannon, di sferrare le offensive a favore del candidato repubblicano con messaggi mirati, personalizzati, facendo leva sulle emozioni e le debolezze psicologiche degli interessati.
Filmato di nascosto da Channel 4, Alexander Nix, il chief executive della Cambridge Analytica, ora sospeso dall’incarico, si è vantato di aver gestito gli aspetti chiave della campagna elettorale di Trump. «In America ci siamo occupati noi di tutto, dalla campagna digitale a quella televisiva, basandoci sempre sui nostri big data», ha detto Nix ad alcuni reporter che facevano finta di essere dello Sri Lanka e di voler influire sull’esito delle elezioni nell’isola.
È probabile che l’uso di personale straniero da parte di Cambridge Analytica, soprattutto britannico e canadese, abbia violato le leggi elettorali americane. Ma i veri problemi restano di natura giudiziaria, economica e soprattutto politica. Su Facebook sta per abbattersi una tempesta. Se la FTC ( Federal trade commission), l’agenzia federale che protegge imprese e consumatori, giungerà alla conclusione che il social network ha disatteso i termini di un accordo del 2011 sulla privacy, potrebbe essere multato 40mila dollari al giorno dal momento della prima violazione. Intanto in una corte californiana è stata presentato un ricorso class action: «Ogni utente di Facebook – ha detto l’avvocato che l’ha presentata, John Yanchunis – è interessato al rispetto della sua privacy». Altre iniziative giudiziarie sono allo studio altrove, anche in Italia.
Al di là degli aspetti giudiziari, il vero problema per Facebook è che la vicenda dei dati rubati ( e poi sfruttati ad arte da Bannon) vanno al cuore del business model del social network: il quale mette a disposizione degli utenti una piattaforma preziosa, agile, divertente, ma in cambio usa per fini pubblicitari e commerciali le informazioni cui attinge. E se ora il Congresso americano o il parlamento inglese decidessero, non fidandosi delle promesse di Zuckerberg e più preoccupati invece delle interferenze politiche, di imporre regole molte più severe sul rispetto della privacy, ne risentirebbero sicuramente i conti di Facebook e le sue quotazioni a Wall Street.