la Repubblica, 21 marzo 2018
Un trauma che si chiama Tennessee
Il più fidato strumento di sfogo – e di tortura – di Tennessee Williams brilla in modo quasi irriverente nella galleria bianca ovattata della Morgan Library & Museum, come un’insegna al neon in una chiesa. È solo una macchina da scrivere manuale, una delle tante tamburellate dalle dita di questo grande commediografo americano al quale oggi è dedicata un’esposizione molto toccante, piena di manoscritti e cimeli, intitolata Tennessee Williams: No Refuge but Writing (“Tennessee Williams: la scrittura come unico rifugio”, fino al 13 maggio). Il colore di quest’elegante macchina da scrivere, una Olivetti Lettera 32, ne tradisce però la funzione utilitaristica. Come descrivere questa particolare sfumatura di blu? Definirla “blu acqua” o “verde acqua” sembra banale per l’uomo di cui si parla. Williams (1911-1983) si dilettava a inventare nomi per i blu: blu cromatico, blu spirituale, blu emotivo. Lasciò che Blanche DuBois, protagonista dell’immortale Un tram che si chiama desiderio, nell’ultima scena facesse notare che la sua vestaglia era “azzurro della Robbia, l’azzurro della veste della Madonna nei quadri antichi”. Subito dopo la protagonista anticipa che l’avrebbero sepolta in mare, lasciandola cadere fuori bordo in “un oceano azzurro come… gli occhi del mio primo amore!”. Di quel blu-azzurro c’è un’eco ulteriore nelle prime righe di un diario che Williams tenne nel 1955 durante le prove del suo La gatta sul tetto che scotta. Il diario si apre con queste parole: “È una giornata nera per dare inizio a un diario blu”. Era “stanco e un po’ ubriaco”, scrisse, e aveva “un freddo bestiale”. Dopo essersi lamentato per l’inadeguatezza della sua protagonista, Barbara Bel Geddes, espresse preoccupazione per il fatto che “la commedia non risultasse abbastanza interessante”. Si potrebbe supporre che Carolyn Vega, curatrice associata del dipartimento dei manoscritti storici e letterari del Morgan Library & Museum, si sia trovata ad affrontare preoccupazioni simili.
Documenti in teche di vetro, fotografie in bianco e nero, manoscritti su carta ingiallita: a stento si potrebbero considerare elementi ideali per evocare un uomo che visse e scrisse in Technicolor e fu sempre in fuga dai suoi demoni, a quanto pare.
Invece, No Refuge but writing trasmette l’impressione di essere tutt’altro che una mostra immobile. L’energia instancabile e fremente che spinse (e in qualche caso schiacciò) Williams a cercare qualcosa per tutta la vita vibra nella quiete di questo allestimento che segue la carriera del drammaturgo dalla Battaglia degli angeli (1941), la sua prima opera messa in produzione, a La discesa di Orfeo (1957), una rielaborazione dello stesso materiale. Furono due flop. In mezzo a queste due produzioni, però, ci furono opere che hanno reso Williams un gigante della letteratura, tra cui Lo zoo di vetro (1945), che secondo l’autore gli spalancò le porte alla “sciagura del successo”; Un tram che si chiama desiderio (1947), il suo capolavoro; La rosa tatuata (1951, che gli fece vincere un Tony Award); e La gatta sul tetto che scotta, quella che Williams preferì rispetto a qualsiasi altra. In mostra queste produzioni sono rappresentate per lo più in forma scritta: bozze e prime stesure, programmi, blocchi d’appunti, corrispondenza e schizzi di scene.
In altre parole, quel flusso vivente che è il teatro è ridotto qui a due dimensioni. Guardando da vicino le pagine incorniciate, però, affiora un dialogo carico di tensione, elettrizzante, che ci ricorda che quello che oggi è materiale d’archivio un tempo era potenzialità palpitante. Le annotazioni a matita mostrano uno scrittore ancora intento a scolpire e perfezionare il suo materiale che, nella sua forma finita, ha poi acquisito la solidità dei testi sacri di un canone. Lungo una parete sono esposte in ordine cronologico le varie versioni di quello che sarebbe diventato Un tram che si chiama desiderio. Una stesura (datata 1945-46) si intitola La passione di una falena e, tra le annotazioni per mano dell’autore, riporta nell’angolo superiore destro della prima pagina questa disposizione: “Dattilografa, per piacere sostituisca al nome ‘Ralph’ quello di ‘Stanley’ ogni volta che lo troverà nel testo”. Il personaggio di Blanche compare come “Gladys” in una prima stesura del Tram intitolata Interno: panico, titolo che la dice lunga sullo stato mentale del personaggio come del suo creatore. In queste modifiche c’è un fremito – sconfortato ed euforico – e ciò suggerisce scambi assidui tra lo scrittore e i primi lettori. Si ha la possibilità di analizzare, uno accanto all’altro, i quattro finali proposti da Williams al regista Elia Kazan per La gatta sul tetto che scotta, ciascuno dei quali modifica leggermente l’angolatura della rappresentazione scenica secondo gradi diversi di ottimismo, cinismo e rassegnazione.
La madre opprimente di Williams, Edwina, e la sua fragile sorella Rose – con la quale il commediografo formò la litigiosa tribù di visionari che ispirò lo Zoo di vetro – sono rievocate qui da istantanee che sembrano essere state appena staccate dalle pagine di un album di famiglia. La presenza della sua adorata Rose, che dopo essere stata sottoposta a lobotomia avrebbe trascorso la vita intera in case di cura, appare particolarmente vivace.
“Sto già facendo piani per volare molto lontano (forse fino a Ceylon) la sera in cui debutterà a New York”, scrisse Williams nei giorni di prove de La gatta. Le chiavi delle stanze d’albergo che collezionò sono state assemblate in una natura morta che parla di una vita che non fu mai calma e immobile.
2018, The New York Times Traduzione di Anna Bissanti