la Repubblica, 21 marzo 2018
Reinhold Messner: «Ho visto il mondo dall’alto ma la mia impresa ha distrutto l’Everest»
SOLDA «Eravamo liberi e siamo stati felici. Il grande gioco dell’alpinismo però è finito.
L’era dell’andare su, oltre l’avventura, spingendo un passo avanti anche la scienza, non tornerà. Per chi vive nelle alte quote, è un rimpianto: ma per il pianeta, al collasso ambientale e delle diversità, è una tragedia».
L’8 maggio 1978 Reinhold Messner è stato il primo uomo ad arrivare senza bombole d’ossigeno in vetta all’Everest, quota 8848, la montagna più alta della terra. Assieme all’austriaco Peter Habeler, 40 anni fa, non ha cambiato solo la storia dell’alpinismo. Ha aperto orizzonti nuovi alla medicina e all’industria dei materiali, all’economia e alla filosofia: all’idea che abbiamo di noi stessi. L’umanità ha capito che l’impossibile era possibile: l’essere umano può arrivare in ogni punto delle terre emerse dagli oceani respirando senza aiuti esterni. «È cioè un organismo programmato per vivere su questo pianeta – dice Messner – e se accetta la sfida di non concentrarsi, può ancora governare il proprio destino. Un particolare mi ha sempre fatto pensare: siamo arrivati sulla Luna nel 1969, nove anni prima di tentare di raggiungere nel modo più semplice, respirando liberamente, quello che consideriamo il tetto della nostra casa».
Quarant’anni dopo il «re degli Ottomila», primo uomo a salirli tutti e 14, è di nuovo sul nevaio sotto Cima Madriccio, tra i suoi ghiacciai sudtirolesi dell’Ortles-Cevedale. Sulla soglia dei 74 anni gira le ultime riprese di «The last step», «L’ultimo passo». Il film, in anteprima sulla tivù tedesca e poi anche in Italia, racconta la scena mancante dell’«Everest senza ossigeno», impresa-icona globale della «volontà che supera ogni ostacolo». A interpretare la parte di Reinhold Messner è il figlio Simon, 27 anni, biologo e rocciatore, un sosia del padre da ragazzo.
Perché vuole mostrare il suo «ultimo passo» sull’Everest?
«Nel 1978 anche il cameraman britannico aveva deciso di accompagnarci senza usare l’ossigeno. A 8 mila metri però si è fermato e ha dato a me una piccola cinepresa. Per risparmiare energie, fino a quota 8750 non l’ho usata. L’ho fatto solo quando ho visto che la cima era cento metri sopra. Le immagini in vetta sono storia.
Fino ad ora mancava invece il racconto del passo decisivo, tra gli 8 mila e i cento metri finali.
Anche nella vita, l’attimo cruciale è quello che precede l’obbiettivo, non ancora certo: il film racconta questo, l’importanza delle vigilie».
Perché il primo «Everest senza ossigeno» segna «un
prima e un dopo» per tutti?
«Le spedizioni pesanti in Himalaya, come noto, sono diventate turismo. Ciò che più importa invece è che gli esseri umani hanno compreso di avere tutta la terra a portata di mano, che si può respirare anche sull’ultimo sasso spinto verso il cielo. Incredibile: pochi metri più su la rarefazione dell’aria preclude all’organismo la capacità di acclimatarsi. Quel giorno abbiamo trovato il confine che sta sopra ognuno di noi».
Toccare il soffitto ha generato effetti positivi?
«Per lo sport e per la medicina è stata una rivoluzione fondamentale. Abbassare costi e difficoltà dell’alpinismo estremo, si rivela invece un disastro.
Interessi senza cultura assicurano che tutto è possibile ovunque e per tutti: si spazzano via popoli e diversità, l’ecosistema della terra sta eliminando migliaia di forme di vita».
Non crede che anche simili
allarmi generici risultino dannosi?
«Non sono generici. L’ultima volta che sono andato in Nepal, salendo da Lukla a Namche Bazar per la prima volta la gente non congiungeva più i palmi dicendo “Namasté”. In mano hanno tutti il cellulare e osservano il mondo secondo i colossi del web. Se hai le mani occupate non puoi unirle per salutare: l’addio a quel gesto è il congedo da una curiosità millenaria, sorgente della spiritualità. Anche il loro pensiero-sito è appiattito sull’istante, come il nostro, subito cancellato dal successivo. Questo succede in Mongolia e in Cile, in Congo e in Groenlandia: lo sterminio sistematico delle diversità è la tragedia più sottovalutata del nostro tempo».
Ancora più di effetto serra e consumo della natura?
«Alla pari, ma qui dal restare liberi si passa alla sopravvivenza. Siamo oltre 7,5 miliardi, sempre più longevi, già dipendenti dai tempi di scienza e tecnologia. Trovo incredibile il ritardo di una rivoluzione globale per la terra e per la vita, non più collegabile alla sostenibilità economica. La priorità adesso è il pianeta e il prezzo da pagare è cambiare radicalmente vita. Per salvarsi, in montagna, bisogna saper tornare indietro. Anche il mondo deve scendere subito dalla sua “zona della morte”, quella oltre quota 8 mila, dove non si resiste a lungo.
Ha salito il suo Everest senza ossigeno: se non rientra al campo base, costi quel che costi, non sopravvive».
C’è un futuro per le persone fuori dalle metropoli?
«Solo a parità di condizioni. È il cuore del problema: pari condizioni per chi non decide e vive lontano dai luoghi delle decisioni. Nei villaggi rurali e di montagna, negli avamposti di mare, le persone non accettano di restare escluse e ne hanno diritto. Nel luogo senza servizi chiamato “lontano” restano solo i vecchi, la terra è già un deserto che avanza e che assedia gli stessi epicentri urbanizzati. Il ritorno del lupo sulle Alpi, ad esempio, in città fa sognare, ma in montagna fa paura. Dal punto di vista scientifico è importante, ma se poi i pascoli vengono abbandonati, aprire un dialogo alla pari diventa una necessità. Il problema è che chi decide non approfondisce le conseguenze, perché “lontano” non sa dov’è».
Perché ora sposa battaglie che prima non ha combattuto?
«Nel 1999, quattro anni dopo la morte di Alex Langer, sono stato eletto europarlamentare assieme a Daniel Cohn-Bendit. Vedevamo già avanzare intolleranza e xenofobia, disprezzo per la natura e ossessione per la crescita, neo-nazionalismo e localismi, materia prima dei fascismi europei di oggi. Ho lottato scrivendo libri, aperto musei e girato film: dicevano che non potendo restare famoso grazie alle gambe, usavo la lingua. Adesso sono all’anima, che si esprime per azioni. Le mie lotte coincidono con la mia vita e resto ambizioso: faccio la mia parte e mi metto in gioco al massimo per non guardare altrove».
Quarant’anni dopo, riuscirebbe a immaginare un Everest senza ossigeno?
«È stato l’inizio della fine, le vie ferrate arriveranno in cima a tutti gli Ottomila e non parlo di quelli in Himalaya. Bruciamo i miti e solleviamo il velo alla magia, errore fatale. Ma guardare in su e partire resta l’unico modo per ridurre il campo dell’ignoto e sentirsi felici. La scienza e la cultura progrediscono per la stessa via. Così io, se potessi, partirei ogni giorno da solo per un Everest senza ossigeno: rispetto a ieri, con più attenzione alla dimensione umana di tutto, verso una montagna che deve servire alla gente, non alle nuove divinità, o ai prossimi eroi». È questo «the last step» di Reinhold Messner.
In alto non può andare oltre: adesso, nell’impossibile, per restare libero ci vuole entrare.