Corriere della Sera, 21 marzo 2018
La dignità della povera gente. È la «pietas» del Pitocchetto
Sebbene curvi sotto il peso di una gerla o leggermente sbilenchi per la stanchezza, i poveri del Pitocchetto ci guardano con una calma antica, pastosa. Nessun portatore d’acqua abbassa gli occhi per la vergogna; nessuna filatrice si nasconde dietro un gesto triviale. È la bellezza misera e serena della povera gente che fa del settecentesco Giacomo Ceruti (detto «Pitocchetto» proprio perché ritraeva i poveri, cioè i «pitocchi») una delle riscoperte più affascinanti del Novecento. E uno dei cardini di quel gusto lombardo con cui Tiziano si era confrontato secoli prima.
In un certo senso, con le opere di Ceruti, in questa mostra un ciclo si compie: fu esponendo il suo La lavandaia proveniente dalla Pinacoteca Tosio Martinengo (appena riaperta) che, nel 1922, Ugo Ojetti diede il via al rilancio del Pitocchetto. Poi consolidato con i contributi di Longhi, di Gregori e con la passione di Giovanni Testori. Quest’ultimo, in un articolo del 1987 sul Corriere della Sera, parlò di «monumento agli stracci» per definire la grandezza evangelica di questi dimenticati dalla storia.
È infatti una pietas molto particolare quella che Ceruti infonde nelle figure degli «ultimi». Diversa, per esempio, da quella di Vincenzo Foppa, abilissimo, certo, nel cogliere una sorta di intimità nelle figure dei santi (o nei miracoli) ma confinato in una poesia della modestia più aderente al Cinquecento lombardo. E non è nemmeno la stessa pietas empatica di Giovanni Gerolamo Savoldo, per restare nella piena brescianità, fatta di sofisticati notturni e colori vivi.
Il Pitocchetto insiste sui ritratti a grandezza naturale, sui dettagli resi con pacatezza, sulla dignità dello sguardo che non si sottrae, nonostante i piedi scalzi e gli abiti logori. È come se ad un certo punto smettesse di ritrarre la povera gente e si facesse egli stesso come loro, in un profondo atto di immedesimazione.
Da dove nasce questa dignità piena di forza interiore? Ceruti, nella sua carriera, si è diviso tra pittura sacra e i ritratti, spaziando, appunto, tra il reportage verista in una Lombardia poverissima e i nobili che, oltre a farsi fare un dipinto come si deve, bene accoglievano i suoi pitocchi (la famiglia Avogadro ne acquistò un intero ciclo). Guardando le sue ricamatrici, i portaroli, i mendicanti, affiora un’idea: è come se Ceruti avesse assorbito sia la lezione di Tiziano (maestro del ritratto nobile, con i suoi personaggi dal portamento altero) che quella di Lorenzo Lotto, dotato di finissima psicologia, narratore di personalità che vanno oltre l’abito o lo stemma del casato.
Non è più «povera» la ragazza costretta a lavorare in luoghi sudici ( Donne che lavorano ); non è più «povero» il ragazzo con la gerla ( Portarolo seduto ). Sotto accusa finisce un mondo, quello che permette tutto questo. E Ceruti resterà fedele alla sua scelta anche nelle ultime volontà testamentarie: «Il mio corpo doppo che sarà fatto cadavere voglio che si sepelisca da povero (sendo io veramente tale) nella Chiesa Parochiale ove morirò».