Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2018
La fusione tra macchina e uomo
Come la filosofia l’arte pone domande, solleva questioni, avanza interrogativi. L’arte inoltre traccia mappe, “disegna” i rapporti, visualizza le pulsioni e le contraddizioni del proprio tempo e, quindi, oggi, del presente tecnologico. Si propone quindi come una guida e, allo stesso tempo, come un dispositivo per interpretare l’orizzonte del cambio di paradigma impresso dalle tecnologie informatiche. La mostra “Thinking Machines: Art and Design in the Computer Age, 1959-1989”, attualmente in corso al MoMA di New York, propone un taglio storico per illustrare le relazioni che arte e computer hanno intessuto fin dai tardi anni ’50. Così, accanto ad opere di design applicato alle macchine, come quelle prodotte da IBM, Apple e Olivetti, vengono presentati i progetti di artisti come Stan VanDerBreek, Richard Hamilton e John Cage, che da subito hanno mostrato interesse per il potenziale espressivo dell’elettronica. A questo proposito va segnalata anche la mostra “Algorithmic Signs”, conclusasi lo scorso dicembre e ospitata dalla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Dedicata ai pionieri della computer art, l’esposizione comprendeva opere di Ernest Edmonds, Manfred Mohr, Vera Molnár, Frieder Nake e Roman Verostko, artisti che hanno esplorato le potenzialità dell’algoritmo come strumento creativo.
L’artista vive nella sua epoca, è radicato nella realtà e da questa si ispira, spesso utilizzando le tecnologie emergenti cercando di interpretarne le direzioni, soprattutto quelle più “disruptive”. E così la mostra che si è appena inaugurata a Francoforte dal titolo “I am Here to Learn: On Machinic Interpretations of the World” entra nella carne viva del computing contemporaneo, mostrando il potere degli algoritmi generativi e delle reti neurali nel creare forme di intelligenza e di autonomia delle macchine. Sollevando, in questo modo, una serie di questioni, anche etiche, davvero imprescindibili: come sarà un mondo in cui le macchine dialogano con noi, entrano in simbiosi e si radicano in ogni aspetto sociale e privato? La macchina pensa, percepisce? Percepisce con noi? E se la macchina sembra iniziare a dire “io sono qui”, quale potrà essere, allora, il nostro posto in quanto umani? Gli artisti Zach Blas e Jemima Wyman presentano un’installazione con soggetto Tay, chatbot ideato da Microsoft nel 2016. Nell’istallazione dal titolo “im here to learn so :))))))”, l’intelligenza artificiale rivive come somma di dati e di immagini sovrapposte e inizia a chattare parlando di vita, di morte e dell’avere un corpo. Con “CV Dazzle” Adam Harvey, dopo aver studiato i modi con cui gli algoritmi di computer vision sono in grado di riconoscere i volti, sviluppa tutta una serie di strategie per ingannarli, restituendo ai volti la propria paternità e creando una galleria di ritratti anomali ma a prova di identificazione computazionale. Mentre Shinseungback Kimyonghun usa l’algoritmo di riconoscimento delle immagini Google Cloud Vision Api per creare immagini generative. La macchina è libera così di associare e di sviluppare poligoni al fine di costruire un’estetica autonoma. Anche “Legge della media” di Addie Wakenknecht lavora sulla computer vision. Si tratta di stampe ottenute da calcoli realizzati da algoritmi: “dopo aver calcolato la media dei pixel risultante da una ricerca per immagini, i dati aggregati sono stati analizzati con la tecnica dell’eye tracking (monitoraggio oculare) e i valori RGB per determinare la “media perfetta” e creare immagini composite.” L’opera, in questo caso, fa parte della mostra “Human+. Il futuro della nostra specie”, ospitata a Roma a Palazzo delle Esposizioni, che sonda i percorsi e gli impatti delle nuove tecnologie nel ridefinire l’essere umano. Si parla di cibernetica, di robotica, di transumanesimo e di post-organico presentando opere di artisti che riflettono su cosa ne sarà dell’uomo nella (sembrerebbe) inevitabile profonda ibridazione con le macchine. Cosa ne sarà del suo corpo, nel momento in cui biotecnologia, robotica e AI convergeranno? Nina Sellars, per esempio, con “Obliquo – Immagini dall’intervento per l’impianto del terzo orecchio di Stelarc” riprende l’operazione chirurgica che ha portato all’impianto del terzo orecchio dell’artista performer australiano che, in questo modo, ha deciso di aumentare artificialmente il proprio corpo. “Macchina Avatar” di Marc Owens, invece, registra il corpo dello spettatore e lo proietta fuori da sé riproducendolo in chiave videogame, proponendo così una riflessione lucida sull’idea di identità in tempi di aumentazione e di moltiplicazioni virtuali del sé. Allo stesso modo l’opera del collettivo BeAnotherLab dal titolo emblematico “La Macchina per essere un altro” è “un’installazione interattiva creata utilizzando protocolli neuroscientifici, telepresenza, realtà virtuale e tecniche ispirate alla teoria della mente incarnata.” In pratica si può fare l’esperienza di immergersi nel corpo di un’altra persona, provando in prima persona percorsi di esperienza empatica.
Le tecnologie digitali stanno talmente operando nella direzione di una “ri-ontologizzazione” del nostro mondo che diventa fondamentale affrontare questa vera e propria rivoluzione con diverse chiavi e da molteplici punti di vista che ci permettano di osservare, narrare e interpretare nella maniera più libera possibile la complessità dei fenomeni che ci investe. E fornirci inoltre strumenti per negoziare questo cambiamento.