La Stampa, 20 marzo 2018
Al Pacino: Fuggo dagli alti e bassi. Scombussolano la vita
È stato Michael Corleone. E Serpico, il poliziotto sotto copertura. E John, il rapinatore un po’ imbranato di Un pomeriggio di un giorno da cani. Arrivato al 1975, Al Pacino avrebbe potuto ritirarsi e restare nella storia del cinema come uno dei suoi grandi personaggi. Invece sono arrivati Scarface e Americani, Profumo di donna, Donnie Brasco e Insomnia. E anche Angels in America, la serie televisiva della Hbo che ha segnato una svolta e dimostrato che la televisione può significare qualità.
Oltre a questo, Al Pacino non ha mai abbandonato il teatro, vincendo premi Tony nelle vesti di Riccardo III e Giulio Cesare e riportando a Broadway solo pochi anni fa Americani di David Mamet. Potrebbe ritirarsi anche adesso, che ha compiuto i 77 anni, ma l’attore italo-americano non intende fermarsi ed è tornato a lavorare con Hbo per Paterno, storia vera di John Paterno, leggendario coach della squadra di football di Penn State. Una storia di vittorie e di successi, fino a quando nel 2011 il suo assistente venne accusato di abuso di minori. E Paterno, travolto nello scandalo e costretto alle dimissioni, morì due mesi dopo.
Al Pacino, continua a lavorare. E a sorprenderci.
«Mi sento molto fortunato. Fortunato perché sono in grado di lavorare con grandi autori e di interpretare ruoli che mi fanno pensare e usare il cervello. E di essere qui a parlarne. È importante. E sì, a volte mi sento stanco e non ce la faccio a camminare o ad alzarmi in fretta. Ma il mio livello di energia è buono».
È stato uno dei pionieri di questa nuova era di trionfo della televisione, uno dei primi a rendere rispettabile il passaggio dal grande al piccolo schermo.
«Così vanno le cose oggi, fino alla prossima svolta che farà prendere a tutti un’altra direzione. Nel frattempo, è vero che un certo tipo di storie ormai si fanno per la televisione. Io da anni ho una buona collaborazione con Hbo. Ho anche fatto The Irishman per Netflix, con Martin Scorsese che è un maestro con cui è sempre bello lavorare. E poi c’era Bob De Niro, adoro Robert che conosco da sempre. E Joe Pesci e Bobby Cannavale. Abbiamo fatto questo film con un grande senso di libertà. Ci abbiamo lavorato otto mesi, come si faceva una volta. Ho provato le stesse sensazioni».
Passiamo a «Paterno». Pensa che sapesse degli abusi del suo assistente?
«Non lo so, posso solo rispondere per quanto riguarda il personaggio che ho interpretato e la parte che è stata scritta per me. Passo per varie fasi: la rabbia, la rimozione, il diniego, la depressione, il rimorso, il senso di colpa. Penso che Paterno avesse un vago sentore di quanto stesse accadendo, ma che non volesse trovarsi coinvolto in storie dove non aveva il controllo».
Dopo il caso delle ginnaste alle Olimpiadi e molte altre rivelazioni recenti, il tema degli allenatori e degli abusi è molto attuale.
«Ho la fortuna di avere tre figli e a nessuno di loro è mai successo. Non è un problema che tengo costantemente nella mente, come le droghe. Ma il problema c’è, è reale. Uno degli scopi del film è proprio portare consapevolezza».
A volte si arriva anche a degli eccessi, e persone innocenti vengono condannate in partenza.
«Le racconto una bella lezione usata spesso alla scuola di recitazione. Una persona entra in una sala e annuncia che l’uomo che sta per arrivare è stato 15 anni in prigione. E che cosa accade? Quella persona verrà vista in modo diverso, anche quando prende in mano una tazza di caffè si penserà: guarda come impugna quella tazza! Non si può farne a meno. È un esperimento da provare».
Il punto più alto nella sua lunga carriera? E quello più basso?
«Ci sono punti alti e bassi tutti i giorni. Preferisco stare lontano da entrambi, sono situazioni che scombussolano la vita. Sono uno che ne sa qualcosa!».