la Repubblica, 20 marzo 2018
Il greggio in calo affonda Aramco. L’Arabia Saudita rivede la quotazione
Milano C’è chi ha spiegato come l’Arabia Saudita sia «vittima del suo stesso successo», secondo la definizione data dagli analisti di Standard& Poor’s. Non era mai successo, infatti, che l’Opec riuscisse a mettersi d’accordo con i “rivali” della Russia per limitare le quote di produzione del petrolio. E in questo modo, a portare a un rialzo delle quotazioni del greggio. Ma ora, il patto raggiunto più di un anno fa sotto la regia della casa regnante di Riad potrebbe non reggere più. Così davanti alle incertezze del mercato, con il prezzo del greggio che è tornato molto vicino ai 60 dollari, sono proprio i sauditi a pagarne le conseguenze maggiori. Al punto da rivedere i piani per la quotazione di Aramco, il colosso petrolifero di stato: una operazione lanciata due anni fa e venduta come la più grande Ipo – per valore economico – di sempre, con una capitalizzazione complessiva ( auspicata) di oltre duemila miliardi di dollari. Qualche giorno fa, il Financial Times ha pubblicato l’indiscrezione secondo cui la quotazione – prevista per la fine del 2018 – verrà rinviata all’anno prossimo. Rivelazione confermata in queste ore anche dal Wall Street Journal, con l’aggiunta di un ulteriore particolare: Aramco non verrà più collocata in una delle grandi piazze finanziarie mondiali ( in lizza New York, Londra e Hong Kong), ma indirizzata verso Tadawul, la Borsa locale. Anche per l’accoglienza non proprio calorosa da parte dei grandi investitori internazionali: non fidandosi dell’andamento del greggio sempre più instabile, nonostante i tentativi del cartello Opec- Russia di portarlo verso livelli più elevati, e non avendo avuto ragguagli sullo stato delle riserve disponibili ( il dato fondamentale nella valutazione di una big oil company), banche e fondi di investimento chiedono quantomeno garanzie sulla distribuzione dei dividendi.
Ma cosa ha causato il più che probabile rinvio della quotazione della società petrolifera? In realtà, il motivo è da ricercare proprio nel successo politico dell’accordo per il taglio della produzione, raggiunto a fine 2017 e confermato fino alla fine dell’anno in corso. Perché il rialzo delle quotazioni oltre i 70 dollari ha rigenerato negli Stati Uniti la produzione di shale oil, il petrolio estratto dagli strati rocciosi e sabbiosi, grazie a tecniche diventate economicamente vantaggiose soltanto una quindicina di anni. Produzione andata oltre ogni aspettativa, tanto da portare gli Usa a superare la Russia quale primo paese produttore a trasformare il gigante americano in un paese esportatore.
Lo shale americano, dopo aver saturato il mercato interno, ha preso altre destinazioni. La Cina, per esempio: il colosso asiatico ha superato la Gran Bretagna e l’Olanda quale destinazione finale. Una crescita destinata a salire, con la benedizione dell’amministrazione Trump, visto che gli Usa devono riequilibrare la bilancia dei pagamenti tra i due paesi. Inoltre, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia ( Iea) saranno proprio gli Stati Uniti a coprire nei prossimi tre anni la crescita della domanda a livello globale: perché se Opec e Russia proseguiranno nella politica di limitazione alle quote di produzione, qualcuno dovrà ben provvedere.
Tutto ciò, secondo l’opinione degli analisti politici più accreditati, sta portando a un ripensamento globale delle strategie saudite, preoccupati del fatto che il mercato non abbia assolutamente reagito con un rialzo dei prezzi alla possibilità di un prolungamento dei tagli alla produzione anche nel 2019. A cominciare proprio dalla quotazione di Aramco.