Corriere della Sera, 20 marzo 2018
Dati rubati, Facebook crolla in Borsa Washington e Londra contro Zuckerberg
WASHINGTON Tutti contro Mark Zuckerberg. Il Parlamento britannico, quello europeo, il Congresso americano e persino Wall Street che ieri ha fatto precipitare del 7% circa il titolo Facebook, quotato al Nasdaq. Il fondatore del social network si trova ad affrontare la più insidiosa delle crisi: la caduta verticale di fiducia. Il caso dei 50 milioni di profili Facebook rubati da Cambridge Analytica e messi al servizio della campagna elettorale di Donald Trump pone una domanda tanto semplice, quanto letale, che rimbalza dall’opinione pubblica alla politica agli ambienti finanziari: Zuckerberg è ancora in grado di controllare la sua società?
Intanto, scrive il «New York Times», è già saltato il primo dirigente: il responsabile per la sicurezza dei dati, Alex Stamos, lascerà l’incarico. Negli ultimi mesi si era scontrato con il vertice della società, in particolare con l’amministratore delegato Sheryl Sandeberg, proprio sulle manovre di disturbo attribuite ai russi.
A Washington, Capitol Hill è in agitazione. La senatrice democratica Amy Klubochar vuole convocare il giovane imprenditore davanti alla Commissione Affari giudiziari: «Deve spiegare come mai non si sia accorto che i dati venivano usati per manipolare gli elettori». La procuratrice generale del Massachusetts, Maura Haley, ha già annunciato l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sui rapporti tra Facebook e Cambridge. Dall’altra parte dell’Atlantico, nel Regno Unito, anche il parlamentare conservatore Damian Collins chiede di sentire direttamente Zuckerberg: «Non è accettabile che Facebook abbia mandato dirigenti non in grado di rispondere ai nostri dubbi». Le rivelazioni del New York Times e del britannico Observer hanno portato alla luce una storia inquietante, dal fascino sinistro. Da almeno cinque anni un team stranamente assortito ha cercato prima di favorire la campagna per la Brexit, poi la candidatura di Donald Trump alla Casa Bianca. Nel 2013, racconta il Guardian, Steve Bannon conosce Christopher Wylie giovane ricercatore canadese, attirato dagli incroci tra social, psicologia di massa, intelligenza artificiale. Bannon, all’epoca direttore del sito della Destra alternativa Breitbart, ha un teorema da dimostrare: la Rete può condizionare i giudizi delle persone, trasformando anche il «prodotto» più brutto in una scelta di tendenza. Wylie è in sintonia e fa l’esempio dei sandali «Crocs»: non il massimo dell’eleganza eppure stravenduti. Ma secondo Channel 4 c’è di più: la Cambridge ricorre a tangenti, false identità, ex spie e persino alla prostituzione di giovani ragazze ucraine per stroncare gli avversari. L’ambito è sempre lo stesso, la politica. La squadra parte con il sostegno all’offensiva anti europea di Nigel Farage. Subito dopo, con i soldi del miliardario Robert Mercer, generoso finanziatore dei repubblicani, la Cambridge Analytica comincia ad ammassare fino a 50 milioni di profili da Facebook. Toccherà a Zuckerberg spiegare come tutto cio sia stato possibile e, soprattutto, se esiste un modo per blindare i dati sensibili.
Già nell’ottobre 2107 l’ufficio legale di Facebook rese noto che circa 126 milioni di americani avevano letto post aggressivi, che fomentavano divisioni, in qualche caso anche l’odio sociale. Poi l’inchiesta del Super Procuratore Robert Mueller ha messo sotto accusa una serie di realtà guidate dal Cremlino.
Giuseppe Sarcina
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Una horror story della politica (e della democrazia)
La caduta in Borsa di Facebook è solo un effetto – oggi il più evidente ma, tutto sommato, non il più rilevante – di quella che ogni giorno di più si conferma una horror story della politica di incredibile gravità: certo, c’è anche il Russiagate, ma, man mano che si susseguono le rivelazioni, diventa chiaro che i russi, nell’interferire nelle elezioni americane del 2016, si sono limitati a cavalcare, e in modo parziale, una macchina già ben oliata. Un meccanismo sapientemente costruito da società informatiche che lavorano nel mercato della politica (ora per Trump ma prima per altri) per spiare ogni singolo utente di Internet – nel caso in questione di Facebook – penetrando nella sua anima. Non basta più collezionare dati sui consumi o le letture dell’individuo per cercare di dedurre tenore di vita e orientamento politico (anche attraverso libri e giornali acquistati): ora si vuole capire da come ciascuno si comporta nei social network, soprattutto con l’analisi dei like, qual è non solo il suo orientamento, ma anche il suo temperamento, quanto è psicologicamente vulnerabile.
Colta per l’ennesima volta alla sprovvista, Facebook si dice raggirata dall’accademico russo-americano al quale ha concesso i suoi dati e da Cambridge Analytica, al quale il professore, Aleksandr Kogan, li ha trasferiti impropriamente. Cambridge Analytica, a sua volta, nega di aver violato leggi. Lo accerterà il procuratore Mueller che sta indagando, ma qui il punto non è stabilire se sono stati commessi reati. Forse è anche più grave se non ce ne sono stati perché questo vorrebbe dire che raccogliere le informazioni private di 50 milioni di elettori, filtrarle attraverso le analisi di psicologi appositamente reclutati per analizzarli, costruire il profilo delle vulnerabilità di ognuno per poi sussurrare messaggi diversi, ma con un unico obiettivo finale a ogni singolo elettore, fa ormai parte della fisiologia, non della patologia delle nostre società aperte.
Ci saranno molte altre puntate della horror story, Facebook dovrà rispondere a molte domande (l’ultima: perché, rotto con Kogan, ha assunto il suo socio?). Ma qui è sempre più evidente la necessità di un intervento politico per proteggere dati essenziali per la nostra democrazia. «Per Facebook si delineano problemi sistemici» dicono gli analisti di Wall Street. E la Borsa reagisce.
Massimo Gaggi