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 2018  marzo 19 Lunedì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA SU FACEBOOK E DATI RUBATI –

La Gazzetta dello Sport

Anno XII – Numero 3982

20 marzo 2018

Facebook rischia di pagare caro lo scandalo sull’uso non autorizzato dei dati di milioni di utenti da parte di Cambridge Analytica. Il titolo del social network è crollato a Wall Street, arrivando a perdere l’8 per cento. Mentre, dagli Usa all’Unione europea, la politica ha chiesto spiegazioni a Mark Zuckerber, finora rimasto in silenzio.

• Già dal nome, Cambridge Analytica, questo caso mi sembra complicato…

Allora partiamo proprio da Cambridge Analytica. Si tratta di un’agenzia informatica di big data creata da Robert Mercer, un miliardario statunitense con idee molto conservatrici, vicino all’ex stratega di Trump Steve Bannon. Questa società accumula dalla Rete dati e informazioni delle persone, poi le elabora attraverso algoritmi per creare profili di ogni singolo utente (abitudini, consumi, ricerche ricorrenti, ecc.). Quindi rivende questi profili a società e partiti politici affinché questi possano personalizzare le loro strategie di marketing o propaganda, influenzando online gli utenti. Ha presente quando le compare la pubblicità di un libro, di un albergo o di un film che richiama una ricerca che lei aveva fatto magari distrattamente qualche ora o qualche giorno prima? 

Certo, mi succede sempre. Ma è legale fare questo?

Finché una società raccoglie informazioni su Facebook o su altri social da chi dà esplicitamente il consenso è tutto regolare. Ma Cambridge Analytica ha fatto una cosa che non si può fare, stando agli attuali termini d’uso di Facebook: ha acquistato un grosso archivio di dati da un’altra società che non aveva il diritto di cedere questi dati a terzi.

Di che mole di dati parliamo?

Secondo i calcoli fatti dal Guardian e del New York Times, i due quotidiani che hanno realizzato per primi l’inchiesta sul caso, parliamo dei profili Facebook di circa 51 milioni di persone. Questi dati Cambridge Analytica li aveva comprati dalla società di Aleksandr Kogan, che tre anni fa aveva realizzato un’applicazione chiamata “thisisyourdigitallife” (letteralmente “questa è la tua vita digitale”). Questa app è una sorta di un gioco, tu rispondi alle domande e ottieni un tuo identikit digitale, ma nel frattempo Kogan accumula dati provenienti dalle credenziali Facebook. L’applicazione, scaricata da 270mila persone, ha permesso di raccogliere le informazioni non solo di chi ha cliccato ok al test di personalità, ma anche dei loro amici del social network, del tutto ignari della cosa. Perciò da 270mila si è arrivati a oltre 50 milioni di profili, che sono poi finiti a Cambridge Analytica. Così poche centinaia di migliaia di utenti hanno involontariamente dato il via a una delle più grandi appropriazioni indebita di dati online mai avvenute.

Come sono stati utilizzati tutti questi dati?

Soprattutto per influenzare le scelte degli elettori negli Stati Uniti e non solo. Sappiamo per certo che nell’estate del 2016 il comitato di Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale, pagando oltre sei milioni di dollari. E l’attività online pro-Trump fu organizzata su larga scala: furono usate grandi quantità di account fasulli gestiti automaticamente per diffondere post, notizie false e altri contenuti contro Hillary Clinton. Se questo lavoro di propaganda sia stato determinante per la vittoria di Trump non possiamo saperlo, fu sicuramente massiccio. Oltre alla campagna americana, Cambridge Analytica è stata coinvolta nella corsa all’Eliseo di Marine Le Pen e nel referendum britannico della Brexit. Inoltre sul sito web si legge che «nel 2012 CA ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli anni ’80». Il caso è diventato politico. Ad esempio il deputato britannico Damian Collins ha chiesto a Zuckerberg di testimoniare personalmente in un’indagine sull’uso dei social network nelle campagne politiche. «È ora che è giunto Zuckerberg smetta di nascondersi dietro la sua pagina Facebook» ha detto Collins. Intanto la Commissione europea ha chiesto chiarimenti e il Parlamento europeo annunciato un’inchiesta.

• E Facebook come si difende?

Dice di essere stata all’oscuro delle azioni di Cambridge Analytica, il cui account è stato bloccato lo scorso venerdì. Ma non sarebbe andata così secondo Christopher Wylie, l’informatico pentito che ha lavorato nella società fin dalla fondazione e che, parlando con il Guadian e il New York Times, ha fatto scoppiare lo scandalo. Wylie afferma che Facebook sapeva sin dal 2015 delle attività illegali di Cambridge Analytica, avrebbe chiesto indietro i dati rubati con la prova della loro cancellazione ma allo stesso tempo non avrebbe rivelato nulla né ai suoi utenti né ai media. Facebook, che ha due miliardi e cento milioni di iscritti,  anche se in questa vicenda fosse in buona fede, mostra di avere un enorme problema nel garantire che non si faccia un uso non autorizzato dei nostri dati. E il problema non riguarda solo il social network prima grande del mondo ma buona parte delle altre aziende attive online che offrono gratuitamente i loro servizi in cambio della pubblicità e della raccolta di informazioni sugli utenti, su di noi. La domanda che dovremmo farci è: non sarebbe il caso di riprendere il controllo dei nostri dati online?


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MARTA PENNISI, CORRIERE.IT –Era prevedibile: (anche) Wall Street sta punendo Facebook per lo scandalo legato all’utilizzo dei dati di milioni di persone iscritte al social network da parte di Cambridge Analytica. Mentre il titolo scivola di oltre il 7 per cento, il mondo aspetta una dichiarazione di Mark Zuckerberg. Il fondatore e amministratore delegato di Menlo Park non è ancora intervenuto sulle inchieste di Guardian e New York Times, che hanno mostrato come la società di marketing online sia entrata in possesso di informazioni relative a 50 milioni di utenti che in realtà non avrebbe potuto usare.
Immediate e unanimi le reazioni delle autorità di tutto il mondo: la senatrice democratica del Minnesota Amy Klobuchar ha chiesto che Zuckerberg venga ascoltato dalla Commissione Giustizia del Senato per spiegare da quando la società sapeva di quanto stava accadendo. In Europa, il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani ha annunciato indagini approfondite.
Il ponte fra Facebook e Cambridge Analytica è stata l’applicazione thisisyourdigitallife, sviluppata da uno studente di Cambridge, Aleksandr Kogan. Scaricata da 270 mila persone, che hanno usato le credenziali di Facebook per iscriversi, ha permesso di raccogliere le informazioni relative a chi l’ha utilizzata, ma anche di rastrellare dati (posizione, interessi, aggiornamenti di stato, ecc) sui loro, ignari, amici. Fino a qui, non c’è alcuna violazione: all’epoca il social permetteva a terzi di raccogliere informazioni sulla sua piattaforma sia di chi dava esplicitamente il consenso sia dei loro contatti diretti. Poi ha cambiato le condizioni.
La pietra dello scandalo prende forma dal fine ultimo di Cambridge Analytica: la profilazione dei potenziali elettori dei suoi clienti, tra i quali c’è la squadra elettorale di Donald Trump, per consentire l’invio di messaggi pubblicitari perfettamente cuciti intorno alla personalità di chi li riceve. La società fondata nel 2013 dal miliardario Robert Mercer, vicino all’ex stratega di Trump Steve Bannon e - sembra - anche alla Russia, si è accordata con Kogan per sfruttare il suo importante archivio di dati. Qui c’è la violazione dei termini d’uso del social network, che ha però impiegato due anni (e ha aspettato le due inchieste giornalistiche) per intervenire sospendendo, venerdì 16, l’account di Cambridge Analytica.
«Le denunce riguardanti il cattivo uso dei dati degli utenti di Facebook sono una violazione inaccettabile dei diritti alla privacy dei nostri cittadini.

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REPUBBLICA.IT – Facebook accusa il colpo dello scandalo dei profili rubati dalla società Cambridge Analytica e il titolo a Wall Street arriva a perdere fino a otto punti percentuali in una seduta complessivamente molto negativa per la Borsa Usa.
Cinquantuno milioni di profili di elettori americani - secondo quanto rivelato dall’inchiesta giornalistica del Guardian e del New York Times – sono stati violati dalla società Cambridge Analytica, quando era al servizio della campagna di Donald Trump per la Casa Bianca, e i dati sono stati usati per influenzare la decisione sul voto.
Per accedere ai dati, Cambridge Analytica avrebbe sfruttato un’applicazione chiamata “thisisyourdigitallife” e presentata a Facebook e ai suoi utenti come uno strumento per ricerche psicologiche la cui raccolta dati sarebbe servita per fini esclusivamente accademici (una sorta di test che prometteva di rivelare alcuni lati della personalità). Scaricata da oltre 270mila persone, la app avrebbe consentito - attraverso le posizioni geografiche, le pagine seguite, i contenuti a cui gli utenti mettevano i “mi piace” e anche le attività degli amici - di accedere ai loro dati e a quelli di amici e contatti di Facebook.
La pressione sul social network è cresciuta anche perché, secondo le rivelazioni dell’inchiesta, la società sarebbe stata a conoscenza dell’utilizzo illecito dei dati già dal 2015 e si sarebbe attivata per chiederne l’immediata cancellazione, senza però informare gli utenti della violazione. Anche per questo paralementari americani e britannici si sono già mossi per chiedere chiarimenti a Facebook. Il parlamentare inglese Damian Collins, del partito conservatore,  ha già chiesto a Zuckerberg di testimoniare in una commissione d’inchiesta della Camera dei Comuni.
Sulla questione è intervenuta oggi anche Vera Jourova, commissaria europea per la Giustizia, la Tutela dei consumatori e l’Uguaglianza di genere «Orripilante, se confermato. I dati personali di 50 milioni di utenti  Facebook potrebbero essere stati così facilmente gestiti male e utilizzati per scopi politici», ha scritto su Twitter. «Non vogliamo questo in Europa», ha aggiunto Jourova. La web agency londinese ha collaborato negli ultimi anni alla campagna elettorale di Donald Trump negli Usa e alla campagna referendaria pro-Brexit nel Regno Unito.

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MASSIMO GAGGI, CORRIERE DELLA SERA –
Milioni di elettori americani spiati via Internet a loro insaputa per capire non solo gli orientamenti politici, ma anche il loro profilo psicologico: tipi impulsivi, riflessivi, introversi o altro. Carpendo da Facebook i dati di 50 milioni di cittadini Usa e tarando poi il messaggio politico da sussurrare all’orecchio di ognuno sulla base delle caratteristiche temperamentali dedotte dalla loro attività sul web: siamo già a questo. Che tecnologia e psicologia pesino sulle elezioni americane lo sappiamo da molti anni. Dalle campagne di Obama a quella di Trump, potenziata dai progressi dell’intelligenza artificiale.
Ora il puzzle delle tecniche informatiche usate dalla società Cambridge Analytica nelle presidenziali 2016 (per Ted Cruz e poi per Donald Trump) per influenzare la psicologia degli elettori americani, sta diventando un mosaico nel quale quasi tutte le tessere vanno a posto grazie alle indagini giornalistiche e giudiziarie. Ultimo, lo straordinario contributo di un «pentito»: Christopher Wylie, l’informatico che ha lavorato in Cambridge Analytica fin dalla sua fondazione, lasciandola qualche anno fa per obiezione di coscienza. Wylie ha raccontato al britannico Observer e al New York Times come questa società, originariamente denominata SCL, ha convinto il miliardario conservatore Robert Mercer e l’ideologo Steve Bannon, allora direttore di Breitbart, a finanziare con decine di milioni e a sostenere politicamente lo sviluppo di una sofisticata piattaforma capace di analizzare gli elettori non più solo sulla base dei voti espressi e dei modelli di consumo, ma penetrando nella psicologia dei singoli.
Per farlo, però, la società necessitava di un’enorme quantità di dati che non aveva. Così il suo padrone, l’inglese Alexander Nix, tentò di ottenere attraverso l’università di Cambridge l’accesso al database di Facebook. Respinto dall’ateneo, Nix, su suggerimento di Bannon, cambiò il nome della società da SCL a Cambridge Analytica per farle acquisire una parvenza accademica e trovò in Aleksand Kogan, un professore russo-americano che aveva accesso ai dati di Facebook, un collaboratore pronto a trasferire le informazioni su 50 milioni di americani dagli archivi del grande social network a quelli della «falange» digitale di Donald Trump. Guidata dal quel Brad Parscale appena messo alla guida della campagna per la sua rielezione nel 2020.
Facebook, che ancora una volta aveva minimizzato i segnali d’allarme, cade dalle nuvole: si dichiara innocente, condanna l’uso abusivo della sua piattaforma, caccia Cambridge Analytica e i personaggi coinvolti. Seguiranno altre puntate appassionanti: nell’ambito del Russiagate il procuratore Bob Mueller indaga da tempo su questa società che sembra aver commesso molti atti illegali a cominciare dall’uso di cittadini stranieri (da Nix allo stesso Wylie, canadese) in azioni relative alle elezioni Usa: cosa vietata dalla legge. Irrilevante per Bannon: «Per lui — spiega Wylie — siamo in guerra: una guerra culturale, prima che politica. E in guerra tutto è permesso». 

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DOMANDE E RISPOSTE – ANTONELLO GUERRERA, LA REPUBBLICA –
• Che cos’è davvero la Cambridge Analytica? E che cosa fa con i nostri dati online?
È una agenzia informatica britannica di big data (cioè accumulazione di dati sensibili e personali degli utenti online) che offre servizi a aziende e partiti politici che «vogliono cambiare il comportamento del pubblico». In pratica, accumula in Rete dati e informazioni delle persone e le rivende a società e partiti affinché questi possano affinare e personalizzare le loro strategie di marketing o propaganda influenzando gli utenti. Il meccanismo è simile a quando in Rete compaiono pubblicità che richiamano evidentemente i nostri interessi o un libro o un film che abbiamo cercato poco prima online.
• Ok, ma tutto questo è legale?
Se queste ricerche vengono realizzate recuperando dati pubblici disseminati online, sì. Il problema è quando si ottengono informazioni in maniera illegale. Ed è per questo che Cambridge Analytica è sotto accusa: secondo alcuni, avrebbe “rubato” i dati di circa 50 milioni di profili Facebook rivendendoli per fini elettorali. Cambridge Analytica smentisce tutto.
• Ma come li avrebbe “rubati” questi dati?
Avete presente quando su Facebook ci compaiono post del tipo “rispondi a questo test” o “che personaggio storico ti rappresenta di più”? Ecco, il meccanismo è lo stesso. Secondo le ricostruzioni di Nyt e Guardian, il ricercatore britannico Aleksandre Kogan e la sua agenzia Global Science Research hanno creato un giochino simile (un “test della personalità”) comprando gli spazi pubblicitari su Facebook per farlo circolare. Ogni volta che gli utenti cliccavano sul test, davano anche l’ok per condividere i propri dati con la società di Kogan, che poi li rivendeva a Cambridge Analytica.
• E quindi la colpa è degli utenti che hanno dato l’autorizzazione?
No, perché, secondo le norme Facebook, Kogan non avrebbe dovuto cedere i dati a terzi e per altri fini, in questo caso politici o di marketing, come quelli di Cambridge Analytica. Inoltre, sarebbero state sottratte, senza permesso, le informazioni anche di tutti gli amici degli utenti Facebook (stimati in circa 270mila) che hanno cliccato “ok” al test di personalità. Perciò si è arrivati a oltre 50 milioni di profili “rubati”.
• E allora Facebook non c’entra niente in tutto questo?
Non è chiaro. Facebook dice di aver bloccato gli account legati a Cambridge Analytica e sostiene di essere all’oscuro delle sue azioni. Ma c’è grossa polemica perché secondo Wylie, l’uomo che ha rivelato tutto a Nyt e Guardian, Facebook sapeva sin dal 2015 di presunte attività illegali di Cambridge, avrebbe chiesto indietro i dati “rubati” con la prova della loro cancellazione, ma allo stesso tempo non avrebbe rivelato nulla al pubblico né ai suoi utenti.

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JAIME D’ALESSANDRO, LA REPUBBLICA –Vittime e carnefici. Si tratta solo di capire chi, nel grande scandalo della Cambridge Analytica, appartiene all’una o all’altra categoria. O magari ad entrambe. Sono coinvolti due quarantenni ambiziosi, un analista di dati molto giovane, un noto esponente dell’estrema destra americana, un social network da due miliardi di utenti, almeno cinquanta milioni di elettori e sullo sfondo l’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Stando alle rivelazioni dell’ex dipendente Christopher Wyle, l’analista, l’azienda inglese specializzata in “psicometrica” avrebbe influenzato le ultime elezioni Usa (e forse il referendum sulla Brexit e altre consultazioni) condizionando l’elettorato grazie ai dati personali di 50 milioni di profili Facebook acquisiti illegalmente. «Se vuoi cambiare il corso della politica devi cambiare la cultura. Quindi le unità di base: le persone», ha snocciolato Wyle. Ed è quel che Cambridge Analytica pare abbia fatto. Ora si muovono anche i politici, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna: diversi parlamentari vogliono sentire Mark Zuckerberg, il capo di Facebook, che avrebbe saputo delle attività probabilmente illegali di Cambridge Analytica sin dal 2015. La parlamentare inglese Damian Collins ha già chiesto a Zuckerberg di testimoniare in una commissione d’inchiesta della Camera dei Comuni.
La prima vittima, e il primo carnefice, è stato Steve Bannon, il falco dell’estrema destra americana. Quando nel 2013 si presentò negli uffici di quella che sarebbe diventata la Cambridge Analytica, Alexander Nix che li dirigeva, disse ai suoi di mettere in piedi una scena convincente: dare l’idea di avere per le mani la nuova scienza che avrebbe potuto cambiare il corso di una tornata elettorale. Bannon era affascinato dall’accademia, Nix lo sedusse aprendo una sede posticcia a Cambridge per accoglierlo. Funzionò. Dagli Stati Uniti arrivarono 15 milioni di dollari da Robert Mercer, il miliardario conservatore cresciuto nella Silicon Valley. Fu lo stesso Bannon a suggerire a Nix il nome: Cambridge Analytica, costola della Strategic Communication Laboratories (Scl) che già si occupava di campagne marketing al limite della legalità.
«Le indagini di marketing si basano su dati anagrafici e geografici. Quelle “psicografiche” aggiungono elementi comportamentali presi dal mondo del digitale», ci aveva spiegato lo stesso Nix poco tempo fa. «Noi analizziamo tutto, dai social network all’uso degli smartphone, per definire l’attitudine delle persone. Nel caso delle presidenziali statunitensi siamo arrivati a raccoglierne migliaia di dati per ogni elettore».
Di fatto la propaganda non aveva più obiettivi di massa, ma veniva ritagliata su misura. Se una certa comunità, in una determinata area del Paese, aveva un problema con le risorse idriche, sulla loro bacheca di Facebook arrivava una pubblicità elettorale che faceva leva su quell’aspetto. Usando la psicologia per convincere gli elettori a votare per qualcuno o per screditare qualcun altro. Stando al New York Times e al Guardian, quei dati li avrebbe comprati dallo psicologo Aleksandr Kogan, che sosteneva di usarli per le sue ricerche a Cambridge. «Kogan aveva le informazioni raccolte dalla sua app che le persone sottoscrivevano liberamente», tuona ora Facebook. Che poi aggiunge di esser stata frodata e di aver sospeso ogni contatto con Kogan e la compagnia di Nix.
Questi dati sono stati la base del “progetto Alamo”, il gruppo guidato da Brad Parscale che ha operato sul Web per Donald Trump. Nix e Parscale sono all’opposto, ma in comune hanno l’ambizione e il non guardar in faccia a nessuno. Alto due metri e 7 centimetri, cranio rasato e lunga barba bionda, Parscale è nato nel 1976 a Topeka, Kansas. Aveva un’agenzia di marketing che per Trump lavorava dal 2011. All’inizio della campagna elettorale gli affidarono la realizzazione del sito web in cambio di mille dollari. Alla fine della campagna gestiva i 94 milioni di dollari per la pubblicità sui social. «Abbiamo colto ogni opportunità », confessò a novembre quando lo avevamo incontrato.Alexander Nix è un suo coetaneo, ma è di famiglia ricca ed è nato a Londra. Sempre elegante, ha studiato al prestigioso Eton College. «Cambridge Analytica ha partecipato a circa quaranta campagne elettorali fra Europa, Stati Uniti, Africa e Asia», sostiene. E nel 2012 pare abbia lavorato anche in Italia con la Scl,. In America ha collaborato prima con Ted Cruz poi è passato a Donald Trump. « In un mondo nel quale le elezioni si vincono con margini esigui, i dati dei social sono determinanti. Ma nessuna campagna su Facebook riuscirà mai a trasformare un pessimo candidato in un candidato vincente». Parole sempre di Nix. Quel che è successo negli Stati Uniti, dove il margine della vittoria è stato esiguo ed è stato conquistato con mezzi illeciti. Mezzi che hanno segnato la fortuna di Parscale e Nix. Il primo ha intascato nove milioni di dollari dalla vendita della sua agenzia alla CloudCommerce di Santa Barbara, che l’ha trasformata nella Parscale Digital offrendo servizi alla politica. L’altro è diventato famoso e sulla Cambridge Analytica sono piovuti contratti milionari. Fino ad oggi. Un giornalista di Channel 4, fingendosi un cliente, ha realizzato un servizio che getterà altra benzina sul fuoco. Insomma, siamo solo all’inizio.

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EMANUELE MENIETTI, IL POST –
Nel fine settimana appena trascorso, Guardian e New York Times hanno pubblicato una serie di articoli che dimostrano l’uso scorretto di un’enorme quantità di dati prelevati da Facebook, da parte di un’azienda di consulenza e per il marketing online che si chiama Cambridge Analytica. La vicenda non è interessante solo perché dimostra – ancora una volta – quanto Facebook fatichi a tenere sotto controllo il modo in cui sono usati i suoi dati (che in fin dei conti sono i nostri dati), ma anche perché Cambridge Analytica ha avuto importanti rapporti con alcuni dei più stretti collaboratori di Donald Trump, soprattutto durante la campagna elettorale statunitense del 2016 che lo ha poi visto vincitore. La storia ha molte ramificazioni e ci sono aspetti da chiarire, compreso l’effettivo ruolo di Cambridge Analytica ed eventuali suoi contatti con la Russia e le iniziative per condizionare le presidenziali statunitensi e il referendum su Brexit nel Regno Unito. Ma partiamo dall’inizio.
Che cos’è Cambridge AnalyticaCambridge Analytica è stata fondata nel 2013 da Robert Mercer, un miliardario imprenditore statunitense con idee molto conservatrici che tra le altre cose è uno dei finanziatori del sito d’informazione di estrema destra Breitbart News, diretto da Steve Bannon (che è stato consigliere e stratega di Trump durante la campagna elettorale e poi alla Casa Bianca). Cambridge Analytica è specializzata nel raccogliere dai social network un’enorme quantità di dati sui loro utenti: quanti “Mi piace” mettono e su quali post, dove lasciano il maggior numero di commenti, il luogo da cui condividono i loro contenuti e così via. Queste informazioni sono poi elaborate da modelli e algoritmi per creare profili di ogni singolo utente, con un approccio simile a quello della “psicometria”, il campo della psicologia che si occupa di misurare abilità, comportamenti e più in generale le caratteristiche della personalità. Più “Mi piace”, commenti, tweet e altri contenuti sono analizzati, più è preciso il profilo psicometrico di ogni utente.
Cosa se ne fa Cambridge Analytica dei datiOltre ai profili psicometrici, Cambridge Analytica ha acquistato nel tempo molte altre informazioni, che possono essere ottenute dai cosiddetti “broker di dati”, società che raccolgono informazioni di ogni genere sulle abitudini e i consumi delle persone. Ogni giorno lasciamo dietro di noi una grande quantità di tracce su ciò che facciamo, per esempio quando usiamo le carte fedeltà nei negozi o quando compriamo qualcosa su Internet. Immaginate la classica situazione per cui andate sul sito di Amazon, cercate un prodotto per vederne il prezzo, poi passate a fare altro e all’improvviso vi trovate su un altro sito proprio la pubblicità di quel prodotto che eravate andati a cercare. Ora moltiplicate questo per milioni di utenti e pensate a qualsiasi altra condizione in cui la loro navigazione possa essere tracciata. Il risultato sono miliardi di piccole tracce, che possono essere messe insieme e valutate. Le informazioni sono di solito anonime o fornite in forma aggregata dalle aziende per non essere riconducibili a una singola persona, ma considerata la loro varietà e quantità, algoritmi come quelli di Cambridge Analytica possono lo stesso risalire a singole persone e creare profili molto accurati sui loro gusti e su come la pensano.
Cambridge Analytica dice di avere sviluppato un sistema di “microtargeting comportamentale”, che tradotto significa: pubblicità altamente personalizzata su ogni singola persona. I suoi responsabili sostengono di riuscire a far leva non solo sui gusti, come fanno già altri sistemi analoghi per il marketing, ma sulle emozioni degli utenti. Se ne occupa un algoritmo sviluppato dal ricercatore di Cambridge (da qui il nome dell’azienda) Michal Kosinski, che da anni lavora per migliorarlo e renderlo più accurato. Il modello è studiato per prevedere e anticipare le risposte degli individui. Kosinski sostiene che siano sufficienti informazioni su 70 “Mi piace” messi su Facebook per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi amici, 150 per saperne di più dei genitori del soggetto e 300 per superare le conoscenze del suo partner. Con una quantità ancora maggiore di “Mi piace” è possibile conoscere più cose sulla personalità rispetto a quante ne conosca il soggetto.
Ok, ma Facebook cosa c’entra?Per capire il ruolo di Facebook nella vicenda dobbiamo fare qualche passo indietro: fino al 2015, anno in cui un altro ricercatore dell’Università di Cambridge, Aleksandr Kogan, realizzò un’applicazione che si chiamava “thisisyourdigitallife” (letteralmente “questa è la tua vita digitale”), una app che prometteva di produrre profili psicologici e di previsione del proprio comportamento, basandosi sulle attività online svolte. Per utilizzarla, gli utenti dovevano collegarsi utilizzando Facebook Login, il sistema che permette di iscriversi a un sito senza la necessità di creare nuovi username e password, utilizzando invece una verifica controllata da Facebook. Il servizio è gratuito, ma come spesso avviene online è in realtà “pagato” con i dati degli utenti: l’applicazione che lo utilizza ottiene l’accesso a indirizzo email, età, sesso e altre informazioni contenute nel proprio profilo Facebook (l’operazione è comunque trasparente: Facebook mostra sempre una schermata di riepilogo con le informazioni che diventeranno accessibili).Tre anni fa circa 270mila persone si iscrissero all’applicazione di Kogan utilizzando Facebook Login, accettando quindi di condividere alcune delle loro informazioni personali. All’epoca Facebook permetteva ai gestori delle applicazioni di raccogliere anche alcuni dati sulla rete di amici della persona appena iscritta. In pratica, tu t’iscrivevi e davi il consenso per condividere alcuni dei tuoi dati e l’applicazione aveva il diritto di raccogliere altre informazioni dai tuoi amici, senza che fossero avvisati (la possibilità era comunque indicata nelle infinite pagine delle condizioni d’uso di Facebook). In seguito Facebook valutò che la pratica fosse eccessivamente invasiva e cambiò i suoi sistemi, in modo che le reti di amici non fossero più accessibili alle app che utilizzano Facebook Login.
L’applicazione di Kogan fece in tempo a raccogliere i dati sulle reti di amici dei 270mila suoi iscritti, arrivando quindi a memorizzare informazioni di vario tipo su 50 milioni di profili Facebook (la stima è del New York Times e del Guardian: per alcuni è sovradimensionata, per altri comprende per lo più dati inutili). Kogan fu quindi in grado di costruire un archivio enorme, comprendente informazioni sul luogo in cui vivono gli utenti, i loro interessi, fotografie, aggiornamenti di stato pubblici e posti dove avevano segnalato di essere andati (check-in).
Ma se Facebook lo lasciava fare, dov’è il problema?Fino a quando l’app di Kogan ha raccolto dati sulle reti social degli utenti non c’è stato nulla di strano, perché in quel periodo la pratica era consentita. I problemi sono nati dopo, quando Kogan ha condiviso tutte queste informazioni con Cambridge Analytica, violando i termini d’uso di Facebook. Il social network vieta infatti ai proprietari di app di condividere con società terze i dati che raccolgono sugli utenti. Per i trasgressori sono previste sanzioni come la sospensione degli account, provvedimento che può determinare la fine del tuo intero modello di business, se questo si basa sui dati e le possibilità di accesso all’applicazione che hai costruito tramite il social network. A quanto sembra, nel caso di Cambridge Analytica la sospensione è arrivata molto tardivamente.Christopher Wylie, ex dipendente di Cambridge Analytica e principale fonte del Guardian per questa storia, sostiene che Facebook fosse al corrente del problema da circa due anni. Come sostengono anche i legali dell’azienda, temendo una sospensione fu la stessa Cambridge Analytica ad autodenunciarsi con Facebook, dicendo di avere scoperto di essere in possesso di dati ottenuti in violazione dei termini d’uso e di averne disposto subito la distruzione. Se così fosse, però, non è chiaro perché Facebook abbia deciso di sospendere Cambridge Analytica solo venerdì 16 marzo, e solo dopo essere venuto a conoscenza dell’imminente pubblicazione degli articoli sul caso da parte del Guardian e del New York Times.
Falla? Quale falla?I giornalisti del Guardian dicono di avere ricevuto forti pressioni da Facebook nei giorni prima della pubblicazione degli articoli, soprattutto per non definire “falla” il meccanismo che consentì a Kogan e poi a Cambridge Analytica di ottenere quell’enorme quantità di dati. Una singola parola può sembrare poca cosa, ma in realtà è centrale in questa vicenda. Da un punto di vista prettamente informatico e di codice non c’è stata nessuna falla: Kogan non ottenne i dati sfruttando qualche errore o buco nel codice che fa funzionare Facebook, semplicemente sfruttò un sistema che all’epoca era lecito e contemplato nelle condizioni d’uso. L’integrità informatica di Facebook non è stata quindi violata in nessun modo, e su questo punto i suoi responsabili puntano comprensibilmente molto per tranquillizzare gli utenti e ridimensionare l’accaduto. D’altra parte, non si può negare che le condizioni d’uso di Facebook fossero “fallate”, visto che permettevano una raccolta di informazioni sproporzionata e senza che se ne potessero rendere facilmente conto le persone comprese nelle reti di amici. Il fatto che la pratica fosse lecita non riduce la sua portata o gli effetti che poi nei fatti ha avuto.

Ricapitolando:
• c’è una società vicina alla destra statunitense, Cambridge Analytica, che raccoglie dati personali per creare profili psicologici degli utenti da usare in campagne di marketing super mirate;
• viene sospesa di colpo da Facebook con l’accusa di avere usato dati raccolti sul social network che non le appartenevano;
• Guardian e New York Times pubblicano articoli accusando Facebook di avere reso possibile la raccolta, seppure non attivamente, e di avere poi sottovalutato o nascosto la cosa.

Ora che abbiamo raccolto le idee, possiamo passare all’ultima parte della storia: cosa c’entrano Trump e Brexit.
Trump e le presidenziali del 2016Venerdì 16 marzo il procuratore speciale Robert Mueller, che indaga sulle presunte interferenze della Russia nelle elezioni statunitensi e sull’eventuale coinvolgimento di Trump, ha chiesto che Cambridge Analytica fornisca documenti sulle proprie attività. Il sospetto è che l’azienda abbia in qualche modo facilitato il lavoro della Russia per fare propaganda contro Hillary Clinton e a favore di Trump.Nell’estate del 2016, il comitato di Trump affidò a Cambridge Analytica la gestione della raccolta dati per la campagna elettorale. Jared Kushner, il genero di Donald Trump, aveva assunto un esperto informatico, Brad Pascale, che era poi stato contattato da Cambridge Analytica per fargli provare le loro tecnologie. Steve Bannon, all’epoca capo di Breitbart News e manager della campagna elettorale, sostenne l’utilità di avere una collaborazione con Cambridge Analytica, di cui era stato vicepresidente. Non sappiamo quanto l’azienda abbia collaborato né con quali strumenti, ma dalle indagini condotte finora (giudiziarie, parlamentari e giornalistiche) sappiamo che comunque l’attività online pro-Trump fu molto organizzata e su larga scala.Furono usate grandi quantità di account fasulli gestiti automaticamente (“bot”) per diffondere post, notizie false e altri contenuti contro Hillary Clinton, modulando la loro attività a seconda dell’andamento della campagna elettorale. Gli interventi erano quasi sempre in tempo reale, per esempio per riempire i social network di commenti durante i dibattiti televisivi tra Trump e Clinton, gli eventi più attesi e seguiti dagli elettori. Ogni giorno venivano prodotte decine di migliaia di annunci pubblicitari, sui quali misurare la risposta degli utenti online e ricalibrarli privilegiando quelli che funzionavano di più. Tutte attività sulle quali da anni Cambridge Analytica dice di avere grandi capacità e conoscenze.
Cambridge Analytica e la RussiaAnche grazie a un’inchiesta del Wall Street Journal, dalla scorsa estate ci sono nuovi e consistenti indizi sul fatto che Michael Flynn, l’ex consigliere della sicurezza nazionale di Trump, avesse stretti legami con la Russia e le attività per interferire nelle elezioni. Da un documento fiscale sappiamo inoltre che Flynn ebbe un ruolo da consigliere per una società legata all’analisi di dati online che ha aiutato il comitato elettorale di Trump. Quell’azienda era proprio Cambridge Analytica, che ora sta collaborando con la giustizia statunitense, negando comunque di avere fatto qualcosa di illecito.Al momento non sappiamo se la grande quantità di dati raccolta da Cambridge Analytica, comprese le informazioni ottenute da Facebook, sia stata passata alla Russia. E se così fosse non è comunque detto che sia stata direttamente Cambridge Analytica a farlo. Non sappiamo nemmeno di quanto si sia avvalso degli strumenti dell’azienda il comitato di Trump, a fronte del grande impegno online per la propaganda elettorale.

BrexitNel maggio del 2017 il Guardian aveva già dedicato una lunga inchiesta a Cambridge Analytica e al suo ruolo nella campagna referendaria per Brexit. Secondo l’articolo, l’azienda aveva collaborato alla raccolta di dati e informazioni sugli utenti, utilizzati poi per condizionarli e fare propaganda a favore dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Tramite Mercer, Bannon e lo stesso Trump, la società era di fatto in contatto con i principali sostenitori del “Leave” compreso il leader del partito populista UKIP, Nigel Farage. Il Guardian aveva anche messo in evidenza strani passaggi di denaro verso il comitato del “Leave”. Dopo quell’articolo, Cambridge Analytica avviò un’azione legale contro il Guardian.

Ok, ma anche Obama “vinse grazie a Facebook”In molti hanno fatto notare che i sistemi utilizzati da Cambridge Analytica sono tali e quali alle soluzioni impiegate dai comitati elettorali di Barack Obama nel 2008 e nel 2012, quando fu eletto per due volte presidente degli Stati Uniti. In parte è vero: durante le due campagne elettorali fu raccolta una grande mole di dati sugli utenti per indirizzare meglio pubblicità politiche e coinvolgerli online. Dalla seconda elezione di Obama a quella di Trump sono però passati quattro anni, un periodo di tempo che ha permesso ulteriori evoluzioni dei sistemi per produrre campagne mirate e soprattutto per raccogliere molti più dati e incrociarli tra loro. Il comitato elettorale di Obama parlava a generici gruppi di persone con interessi comuni, Cambridge Analytica a utenti per i quali individua profili psicologici e comportamentali in modo molto più raffinato.

Fumo e arrostoIn tutta questa vicenda al momento ci sono moltissimo fumo e indizi che qualcosa sia effettivamente bruciato, ma nessuno ha ancora trovato l’arrosto, la prova definitiva e incontrovertibile, soprattutto sugli eventuali legami tra Trump, Russia e Cambridge Analytica. Alcune valutazioni nell’inchiesta sul Guardian suonano un po’ esagerate, considerato che molte cose sul funzionamento di Cambridge Analytica e sulla raccolta dati tramite Facebook erano già note.
L’inchiesta del Guardian ha però il pregio di portare nuovi elementi nel grande dibattito sulle notizie false, sulla propaganda e sulla facilità di diffusione di questi contenuti tramite un uso distorto dei social network. Dimostra che Facebook è probabilmente in buona fede, ma continua ad avere un enorme problema nel garantire che non si faccia un uso non autorizzato dei nostri dati. Facebook continua a fidarsi troppo degli sviluppatori e a non avere strumenti per prevenire un utilizzo distorto dei dati: può punire chi non rispetta le regole, ma non può fare molto per evitare che i dati siano consegnati ad altri e poi ad altri ancora, come probabilmente è avvenuto nel caso di Cambridge Analytica. La posizione di Facebook è ulteriormente complicata dal fatto che usa sistemi di raccolta e analisi simili per il suo servizio di marketing interno, attraverso cui tutti possono organizzare campagne pubblicitarie sul social network, e che costituisce la sua principale fonte di ricavo.
Lo stesso problema riguarda buona parte delle altre aziende attive online e che offrono gratuitamente i loro servizi, in cambio della pubblicità e della raccolta di informazioni sugli utenti. In misure diverse, vale per esempio per Google e Twitter. Mentre negli ultimi anni l’Unione Europea ha avviato iniziative per arginare il problema, inasprendo le regole sulla privacy, negli Stati Uniti il mercato dei dati non ha subìto particolari limitazioni. Le richieste negli ultimi giorni di politici e membri del Congresso a Facebook di chiarire meglio la propria posizione, chiedendo che sia anche organizzata un’audizione parlamentare per il CEO Mark Zuckerberg, indicano che qualcosa potrebbe cambiare anche negli Stati Uniti. Una regolamentazione più precisa è del resto attesa da tempo da organizzazioni e attivisti per la tutela della privacy online.
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RICCARDO LUNA, AGI.IT –C’è un partito italiano che ha lavorato con Cambridge Analytica. Qual è? Quella che fino a qualche giorno fa poteva essere solo una curiosità, diventa una domanda fondamentale dopo l’inchiesta condotta dal New York Times e dal Guardian che ha svelato come Cambridge Analytica abbia ottenuto in maniera scorretta i profili Facebook di circa 50 milioni di elettori americani per utilizzarli a fini elettorali.

Cambridge Analytica è la società che ha lavorato per Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Fondata nel 2013, Cambridge Analytica è stata creata con l’obiettivo di supportare le campagne elettorali utilizzando una profilazione molto precisa degli elettori a partire dai loro dati Facebook. Ma c’è un dettaglio importante: nelle sfide elettorali gioca sempre dalla stessa parte del campo, quella dei populisti. Oltre alla campagna di  Trump, è stata coinvolta nel referendum britannico della Brexit e nella corsa all’Eliseo di Marine Le Pen. Sul sito web, dove si citano oltre cento campagne elettorali in cinque continenti in 25 anni, a dispetto del fatto che è stata fondata appena 5 anni fa, tra le pratiche di successo è in evidenza l’Italia. “Nel 2012”, si legge, “CA ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli anni ‘80”. Usando - prosegue la nota - l’Analisi della Audience Target, CA ha rimesso gli attuali e i passati membri del partito assieme con i potenziali simpatizzanti per sviluppare una riorganizzazione della strategia che soddisfaceva i bisogni di entrambi i gruppi. La struttura organizzativa moderna e flessibile che è risultata dal lavoro di CA ha suggerito riforme che hanno consentito al partito di ottenere risultati molto superiori alle aspettative in un momento di grande turbolenza politica in Italia”. Di chi stiamo parlando? Per capirlo, occorre fare un passo indietro e ricostruire l’intera storia.
La storia inizia a Londra nel 1990 quando Nigel Oakes, che in precedenza era stato un produttore di TeleMontecarlo e poi un dirigente della compagnia di comunicazione pubblicitaria Saatchi & Saatchi, fonda l’Istituto per Dinamiche Comportamentali. L’obiettivo era studiare il funzionamento dei comportamenti di massa e come manipolarli. Nel 1993 Oakes fonda la SLC, i Laboratori di Comunicazione Strategica che si specializzano come cliente della Difesa britannica e che dal 1994 sostengono di aver seguito 25 campagne elettorali in diversi paesi del mondo (soprattutto paesi in via di sviluppo) con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica usando i social media e strumenti di persuasione tipici del mondo pubblicitario (uno dei mantra che ripeteranno i dirigenti di Cambridge Analytica è questo: “Convincere qualcuno a votare un partito non è molto diverso da convincerlo a comprare una certa marca di dentrificio”).
Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica? Alexander NixQui cresce e si forma uno dei personaggi chiave della storia: Alexander Nix. Lo ritroviamo alla fine del 2013 al Palace Hotel di Manhattan a New York che brinda con il suo team. Ha appena convinto due importanti uomini di affari americani a usare le tecniche di SLC per condizionare le elezioni americane. E fondare Cambridge Analytica. I due americani sono Steve Bannon e Bob Mercer. Il primo è molto più noto, essendo stato il responsabile della corsa alla Casa Bianca di Donald Trump. Il secondo è più importante. Bob Mercer non è soltanto un miliardario. È un matematico. Lavorava alla IBM, al progetto di intelligenza artificiale Watson. Ha lasciato IBM per entrare nel fondo Renaissance Technologies. Anche qui: non un hedge fund qualunque. È considerata una delle più formidabili macchine per fare soldi del mondo. Usano i dati e l’intelligenza artificiale per decidere gli investimenti e nel tempo garantiscono un rendimento che secondo alcuni arriva al 40 per cento. È così che Mercer è diventato miliardario. Con la matematica e la finanza. Ma la sua passione è la politica.
È un repubblicano convinto e sogna di poter usare i dati per condizionare la politica. Si fa convincere a finanziare la nascita di Cambridge Analytica (il nome lo ha trovato Bannon però). Mette subito un milione e mezzo di dollari per il progetto test: le elezioni di governatore della Virginia. Il candidato repubblicano perde, ma Mercer e Bannon - che nel frattempo prende la guida di CA - decidono di insistere. Sta per partire la corsa alla Casa Bianca: dopo gli otto anni di Barack Obama, la democratica Hillary Clinton è superfavorita contro una mezza dozzina di non irresistibili candidati repubblicani. Mercer e Bannon vogliono vincere e Nix ha un problema: per funzionare i modelli di CA hanno bisogno di dati, i dati di milioni di profili di utenti Facebook. E qui entra in scena un altro protagonista. Aleksandr Kogan.

Aleksandr Kogan è un giovane matematico russo-americano che fa il ricercatore a Cambridge. Esperto in big data, analisi dei comportamenti sociali e neuroscienze, ha un curriculum accademico impeccabile: laurea a Berkeley, master a Hong Kong, decine di pubblicazioni. Tutte con il suo vecchio nome: Kogan. In realtà dopo il matrimonio con la moglie hanno deciso di cambiare. Una scelta che sembra uscire da una sceneggiatura di Hollywood: il suo nome è Aleksandr, Aleksandr Spectre. Spectre, come il servizio servizio che si oppone a James Bond (ma lui dirà che lo ha scelto perché ama la luce e il suo spettro di colori).  
È sua l’idea per risolvere il problema di CA: se servono milioni di profili di utenti Facebook, lui sa come fare. Crea una società ad hoc, la Global Science Research, e inizialmente prova attraverso Amazon. Va sulla piattaforma Mechanical Turk, dove per alcuni lavoretti digitali gli utenti vengono retribuiti con pochi centesimi, e offre un dollaro per chi compila un questionario online con i propri dati personali. Per un po’ funziona ma Amazon se ne accorge e lo blocca. A quel punto prova con Facebook: crea un app che sembra un gioco, tu rispondi alle domande e ottieni un tuo identikit digitale, ma nel frattempo Kogan accumula dati, ufficialmente per fini scientifici, è un ricercatore di una delle più prestigiose università del mondo in fondo; e li passa a Cambridge Analytica. Quei dati sono un tesoro: sono 50 milioni di elettori, su 30 milioni si sa praticamente tutto, solo 270 mila avevano dato il consenso. Cosa vuol dire “tutto”? Gusti, paure, speranze. Quei dati consentono di creare profili molto precisi e mandare messaggi mirati. A quel punto Mercer decide di investire 15 milioni di dollari in una partnership con SLC in vista della corsa alla Casa Bianca. E inizia a giocare.
Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica? Robert MercerRobert Mercer è un personaggio curioso. È di una riservatezza proverbiale. Quasi maniacale. Vive praticamente recluso a Long Island, non lontano dal blindatissimo quartiere generale dell’hedge fund di cui è stato leader indiscusso fino a qualche mese fa. A dispetto del fatto di essere uno dei “re” di Wall Street, ci sono pochissime sue foto in giro (in compenso il suo yacht “The Sea Owl” è fotografatissimo). In uno dei suoi rari interventi pubblici ha detto: “Amo la solitudine dei laboratori di computer di notte. L’odore dell’aria condizionata negli uffici vuoti. Il rumore che fanno i dischi nei computer e il clac delle stampanti”.
Questa immagine da eremita informatico va combinata con due altri elementi: uno noto, è il fondatore di Cambridge Analytica appunto; l’altro nuovo, sua figlia Rebekah Mercer è alla testa del più importante comitato elettorale dei repubblicani. E i Mercer sono i principali donatori di fondi per la corsa alla Casa Bianca, naturalmente contro i democratici. Inizialmente i Mercer (e Cambridge Analytica) si schierano con Ted Cruz, che sembrava il favorito. Ma subito dopo i primi test elettorali, cambiano cliente - in circostanze non del tutto chiare come vedremo - e puntano sull’outsider Donald Trump. In campagna elettorale così si verifica un singolare processo: Mercer finanzia la campagna di Trump; a capo della campagna c’è il suo amico Steve Bannon il quale assolda Cambridge Analytica (di Mercer) che viene pagata molti milioni di euro per i suoi servizi; gli assegni vengono recapitati ad un indirizzo di Beverly Hills dello stesso Bannon - che era stato uno dei primi capi di CA oltre che azionista della società fino a qualche mese fa. Un ingranaggio anche troppo perfetto.
Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica? Steve BannonLa corsa per la Casa Bianca come è noto viene segnata da voci su presunte interferenze russe (sulla quali è in corso una indagine federale). Non si tratta solo delle cosiddette fake news. In molti casi si tratterebbe di centinaia bot, profili finti gestiti attraverso un algoritmo e diretti dalla misteriosa Internet Research Agency di San Pietroburgo. In diversi casi si registrano attacchi hacker ai database dei partito democratico. Vengono rubati moltissimi dati anche al responsabile  della campagna, John Podesta); l’ipotesi è che possa esserci materiale compromettente sulla candidata democratica Hillary Clinton e la sua gestione scorretta delle email quando era al Dipartimento di Stato. Il “malloppo” viene passato dagli hacker (tuttora ignoti) a WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assange. E qui torna in campo Cambridge Analytica: si scoprirà mesi dopo che l’amministratore delegato Alexander Nix era andato direttamente da Assange a chiedere di avere quei dati. Ma Assange sostiene di avergli risposto di no.
Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?Un manifesto pro-Leave per il referendum sulla Brexit (Afp) Intanto nel Regno Unito si svolge una battaglia decisiva: il referendum che doveva decidere se restare o no nell’Unione Europea. Come è noto il 23 giugno 2016 vincerà la scelta della Brexit. Un successo anche per Steve Bannon che dal 2012 è un amico e sodale di Nigel Farage, il leader del partito Ukip che ha guidato il movimento per la Brexit (nel 2014 Bannon aprirà a Londra la sede britannica del suo sito Breitbart dicendo al New York Times che quello era “l’ultimo fronte della guerra politica e culturale in corso”). Vince la Brexit insomma e solo qualche mese dopo il quotidiano The Guardian scopre che dietro la campagna ufficiale per il “Vote Leave” c’è una oscura società di analisi di dati web, basata a Victoria, nella Columbia Britannica. In Canada. Ha un piccolo ufficio sopra un negozio, si chiama Aggregate IQ ed è stata la destinataria della metà del budget totale di “Vote Leave”: quattro milioni e mezzo di euro. Ma anche altri tre gruppi di sostenitori della Brexit si sono rivolti ad Aggregate IQ. Come è possibile che una società così piccola e marginale abbia giocato un ruolo così importante nel referendum britannico?
L’inchiesta del Guardian è durata mesi e alla fine è stata ottenuta questa spiegazione ufficiale: “Li abbiamo trovati su Internet, li abbiamo sentiti al telefono e li abbiamo scelti perché erano i più bravi”. Solo che il Guardian ha verificato questa affermazione su Google, e al tempo della campagna referendaria non c’era nessuna referenza su Aggregate IQ, nessun articolo, nessun link. Era introvabile. Poi improvvisamente una traccia è emersa: durante le primarie americane Aggregate IQ ha ceduto l’uso di alcuni suoi brevetti: solo che non appartenevano alla società canadese. Appartenevano a Robert Mercer.
Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica? Christopher WylieNei mesi scorsi sono usciti moltissimi articoli sul ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni americane e nel referendum britannico. Alexander Nix inizialmente si vantava del successo (anche nel corso di una conferenza lo scorso novembre a Milano per esempio); poi ha capito l’aria ed è passato sulla difensiva. A proposito della Brexit per esempio ha sostenuto giustamente di non aver avuto alcun ruolo (in effetti è stata Aggregate IQ come abbiamo visto). Ma nel frattempo uno dei primi dipendenti di Cambridge Analytica decide di parlare e contatta il New York Times e il Guardian. Si chiama Christopher Wylie, era con Nix in quel bar di Manhattan alla fine del 2013 quando il capo brindava perché aveva convinto Mercer e Bannon a fondare CA. Nelle foto che girano da ieri si vede un giovane nerd con i capelli a spazzola rosa e un orecchino al naso. Ma nella vita reale Wylie non ha però  “l’anello al naso” e nel 2014, dopo aver trovato Kogan a Cambridge e aver gestito quella partita delicatissima che è stata la raccolta dati di 50 milioni di persone, lascia Cambridge Analytica perché non ne condivide gli obiettivi e soprattutto i metodi: “Le regole per loro non contano nulla”, dice adesso.

Wylie per settimane aiuta i giornalisti del New York Times e del Guardian a collegare molti dei puntini di questa storia. Emerge con chiarezza che Facebook sapeva del problema dalla fine del 2015; che nell’agosto 2016 ha chiesto che venissero distrutti i dati ma non ha verificato che fosse stato fatto; e non ha informato nessuno. Anzi, ufficialmente ha negato il problema (così come Nix ha negato tutto davanti al procuratore federale a dicembre). Facebook ha minimizzato fino a venerdì 16 marzo, qualche ora prima della pubblicazione della doppia inchiesta. Solo allora il vice presidente Paul Grewal ha scritto un lungo post per informare che Cambridge Analytica, Aleksandr Kogan e Christopher Wylie sono stati sospesi dall’uso della piattaforma. Secondo Grewal in questa vicenda sono state violate le regole di Facebook: la app di Kogan è stata scaricato 270 mila volte, ma è stato possibile risalire ai profili degli amici di questi 270 mila utenti per arrivare a 50 milioni.
Passare i dati a Cambridge Analytica costituisce la vera violazione che ora non sarebbe più possibile perché il processo di approvazione delle app è diventato più rigido. Intanto su Twitter il responsabile della sicurezza di Facebook Alex Stamos, ha cancellato i molti tweet che aveva fatto subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta e in un altro tweet ha spiegato di averlo fatto non perché fossero scorretti dal punto di vista dei fatti, ma perché prima di scriverli “sarebbe stato meglio rifletterci con più attenzione”. Una frase perfetta per chiudere questa parte della storia. 
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RICCARDO LUNA, AGI.IT –Di cosa parliamo quando parliamo di Cambridge Analytica? Parliamo di circa 50 milioni di profili Facebook violati a fini elettorali. Vuol dire che di ciascuna di queste persone sono stati presi tutti i dati, l’età, la città di residenza, gli studi, i gusti, la professione; ma soprattutto ogni like espresso, ogni link condiviso, ogni commento e tutti questi dati sono serviti a costruire un profilo psicologico di ciascuno. Con uno scopo molto preciso. Manipolarci. Convincerci a fare qualcosa. Votare per qualcuno. Naturalmente è molto complicato, o addirittura impossibile prendere un elettore di destra e farlo votare per un partito di sinistra e viceversa. Ma per esempio se lavori per il candidato repubblicano alla Casa Bianca, di questo stiamo parlando, puoi provare a convincere un elettore democratico a non andare alla urne mandandogli messaggi sul fatto che tanto non cambia nulla. Quando parliamo di Cambridge Analytica parliamo quindi di come funziona una democrazia al tempo di Internet. Ma anche del nostro rapporto con la rete che è ora di riconsiderare prima che sia troppo tardi.
Le manipolazioni dell’opinione pubblica e la propaganda infatti ci sono sempre state, da molto prima che venisse inventato il web. Ma adesso sono così tante le nostre informazioni personali disponibili sulla rete (che in Silicon Valley si guardano bene dal proteggere); che, con l’aiuto di computer e algoritmi, è possibile raccoglierle e mandarci messaggi personalizzati fatti apposta per noi.
Si dirà: anche Hillary Clinton usava i social e prima di lei Obama, se Trump ha vinto, se la Brexit ha vinto, è perché il loro messaggio era più convincente e perché hanno usato meglio la rete. In realtà la differenza fra la Clinton e Trump nella corsa alla Casa Bianca 2016 è stata abissale se analizzata da questo punto di vista: la candidata democratica aveva a sua disposizione un database infinito dove per ogni Stato sapeva come era andato il voto quartiere per quartiere con tutte le serie storiche. Insomma la Clinton sapeva tutto dell’aspetto “politico” di ciascun elettore.
Trump invece grazie a Cambridge Analytica sapeva tutto di ciascun elettore, non solo la politica, ma i gusti, le passioni, le paure, la cultura, ovvero tutto quelle variabili che poi si traducono in visione politica, che la determinano. Sapeva come emozionarci e come spaventarci. E ha adeguato i messaggi, usando i social media per raggiungere ciascun con le parole più adatte. Si chiama micro-targeting e rispetto alle tradizionali tecniche del marketing pubblicitario e della persuasione occulta siamo in un’altra dimensione evidentemente. E del resto come funziona il micro targeting lo vediamo tutti i giorni navigando in rete quando ci compaiono offerte commerciali che definire tempestive è poco.
Questo è meraviglioso se si tratta di comprare un nuovo telefonino o fare una vacanza; ma lo stesso può dirsi se parliamo di politica? Forse sì, ma rispondereste sì anche se dietro i messaggi che vediamo sui social in campagna elettorale si nascondesse uno stato straniero? Anche se questa cosa venisse fatta da una società fondata da un miliardario americano che punta in questo modo a far prevalere nel mondo, in tutto il mondo, non solo nel suo Paese, i partiti della sua parte politica? E’ esagerato parlare, come fanno nel Regno Unito, del più grande dirottamento della democrazia senza per questo denigrare la capacità degli elettori di scegliere liberamente? E infine, non sarebbe ora di riprendere il controllo dei nostri dati online, sapendo come vengono usati e da chi? Ne parleremo ancora a lungo.

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