Il Messaggero, 19 marzo 2018
Ragazze bulle, fenomeno in crescita. «Vogliono essere leader come i maschi»
ROMA Era il 2000 e gli smartphone praticamente non esistevano. Eppure uno dei più violenti casi di ragazzine che si accaniscono su una vittima debole (in quel caso, maggiorenne) è accaduto in Italia, a Chiavenna, dove un gruppetto di adolescenti ha ucciso barbaramente una suora, dicendo di volerla «offrire» a Satana. Allora, spiega la pm minorile di Milano, Annamaria Fiorillo, sembrava un caso isolato, ora invece, «soprattutto negli ultimi dieci anni, con la diffusione degli smartphone e la facilità di condividere video e foto, il fenomeno ha raggiunto numeri importanti, anche se le violenze di gruppo avvengono ancora soprattutto tra i maschi».
Chi è impegnato ad indagare sul fenomeno, tra Polizia di stato e pm minorili, conferma l’aumento dei casi: sempre più spesso sono le ragazze ad essere violente, con modalità analoghe o persino peggiori di quelle dei maschi. E violenza fisica, psicologica e verbale sono collegate l’una all’altra. Ciro Cascone, procuratore minorile sempre a Milano, alcuni anni fa aveva fatto un conto che aveva destato scalpore: «Mi ero accorto che il 10% dei casi di bullismo aveva come autrici le ragazze. Oggi sono sicuro che quel numero sia aumentato, sicuramente ogni anno, ogni mese, nei nostri registri c’è qualche ragazzina in più».
FEMMINA UN BULLO SU 3
Il rapporto della campagna Indifesa di Terres des hommes, appena pubblicato dall’Osservatorio sulla violenza e gli stereotipi di genere, cita numeri allarmanti: una ragazza su tre denuncia di aver subito aggressioni da coetanei, il 58,1% afferma di aver assistito ad azioni di bullismo/cyberbullismo e il 6,2% ammette di aver compiuto atti analoghi sui propri coetanei.
Un paio di anni fa, la Polizia postale in collaborazione con il portale skuola.net aveva pubblicato dati ancor più rilevanti, sebbene registrati su un campione digitale: su 15.268 studenti, il 33% diceva di aver subito un episodio di bullismo. E tra le vittime delle aggressioni, verbali, fisiche o digitali, una vittima su tre denunciava la presenza di almeno una donna nel gruppo di aggressori, il 13% parlava di gang interamente rosa (il 19% «a prevalenza femminile»).
Ma perché anche le ragazze oggi diventano violente? «Tendono a voler essere leader come i maschi, più di quanto accadeva in passato», spiega un magistrato minorile di una media città del centro nord che chiede di restare anonimo: «Non c’è più un chiaro limite o una distinzione di ruoli e dunque alcune trovano proprio nell’uso della violenza, fisica o, soprattutto digitale, la strada per affermarsi all’interno del gruppo, per diventare la figura dominante».
Le vittime scelte sono figure deboli, scelte perché diverse o persino perché troppo simili alle autrici, portatrici di un segno che chi aggredisce vorrebbe rimuovere. «Una volta – racconta ancora Fiorillo – mi sono imbattuta in una ragazza che riempiva di insulti una coetanea, giovane ragazza madre. Solo con le indagini ho poi scoperto che il padre aveva lasciato la madre per una donna più giovane da cui aveva avuto un figlio e che da tutto questo processo lei era stata completamente esclusa, non vedeva il papà da anni».
IL FENOMENO DIGITALE
L’uso dei social, la possibilità di postare le foto delle violenze o di aggredire qualcuno usando il telefonino ha fatto crescere il numero di aggressioni fisiche, ma condivise in rete, o digitali: «Chi compie un atto fisico ha una forma di empatia con la vittima, chi agisce dietro ad uno schermo o con l’obiettivo di postare quello che fa sui social per mostrarlo agli amici, perde anche questo freno. Lo vediamo con gli adulti e con i minori il fenomeno si amplifica ulteriormente», spiega Ciro Cascone. L’uso dei social per bullizzare si è diffuso molto anche tra i minori di quattordici anni, fascia alle scuole medie. Per dialogare con questo mondo inafferrabile, la Polizia ha diffuso un’app, Youpol che permette ai giovani di denunciare le aggressioni subite, oltre ai casi di spaccio a scuola: «Ma il bullismo ha profili anche di carattere psicologico, è più difficile denunciare», spiega Maria Josè Falcicchia, dirigente dell’Ufficio prevenzione generale di Milano.