la Repubblica, 18 marzo 2018
Intervista a Ermanno Cavazzoni
Si resta un po’ sbalorditi dopo aver letto le 670 pagine del nuovo romanzo di Ermanno Cavazzoni. Anche perché La galassia dei dementi (che uscirà il 22 marzo con La nave di Teseo) si può ascrivere interamente al genere fantascienza. «Amo da sempre questa letteratura popolare e volevo capire se la mia passione per i poemi cavallereschi, potesse rivivere in una storia di alieni, di umani e di robot», dice lo scrittore. Si sa che il mondo sublunare di Cavazzoni, corruttibile e mutevole come tutti i mondi che non possono aspirare all’eternità, è abitato da creature incredibili. E allora cosa c’è di più incredibile di un’invasione di alieni? Con questa piccola avvertenza: la mente policroma di questo scrittore trasforma la sostanza bassa e infima della vita in un gas esilarante che annebbia, stordisce, diverte. La galleria dei suoi personaggi, fin dall’esordio folgorante del Poema dei lunatici, è una sfilata di straordinarie marginalità avvolte negli umori padani. Non a caso i nuovi invasori, prediligono occupare le terre tra i monti Euganei e la via Emilia, che le più scenografiche pianure americane. In un mondo ormai dominato da robot, con gli umani nel ruolo di grotteschi servitori, si svolge il cruento scontro tra due post-civiltà. Chi avrà a meglio? «Nessuno avrà la meglio, perché nessuno ha più una sovranità credibile».
C’è Ariosto dietro la tua fantascienza?
«Con Gianni Celati non facevamo che parlare dei poemi cavallereschi. Oggi quel mondo letterario fantastico è stato sostituito dalla fantascienza».
Prova a spiegare questo passaggio.
«Penso che le macchine siano esseri maniacali come i cavalieri italiani del Cinquecento. Tutti ossessionati dal voler fare una sola cosa. Il destino di Orlando non è poi così diverso da quello di un frigorifero. Se per sbaglio ne lasci la porta aperta, lui continuerà a voler produrre il freddo. È la sua missione. Capisci? Saremo sempre più dominati da macchine monomaniache».
E gli umani? Tu li descrivi come flaccidi, obesi, collezionisti delle cose più stravaganti. Questo è il nostro futuro?
«È la fine dell’uomo produttivo. Tempo fa leggevo qualche paginetta di Marx. Mi colpiva che definisse il comunismo come una forma sociale in cui se uno vorrà pescare andrà a pesca o se vorrà dipingere, dipingerà. E mi sono detto: ma allora il comunismo è la vera società di pensionati. L’automatizzazione, temo, porterà a tutto questo».
Saremo liberati dal lavoro.
«E tu pensi che sia un bene? Ho immaginato una società senza più scopi. Dove il massimo della creatività sarà collezionare bottigliette mignon, stampelle per giacche o forme per scarpe! Come se tutto il mondo fosse davvero andato in pensione».
È un finale buffo, in controtendenza rispetto alle catastrofi che di solito si annunciano.
«Che vuoi, io vengo da un mondo che predilige il comico. La letteratura italiana la puoi ridurre, con qualche semplificazione, a due modelli. Da un lato c’è Pinocchio, dall’altro Cuore. O la linea dei buoni sentimenti oppure stare dalla parte dei disubbidienti».
Tu con chi ti schieri?
«Da quella di Pinocchio, ovvio. Tra l’altro la sua disubbidienza viene cattolicamente perdonata. Sono convinto che uno dei luoghi letterari in cui è nata la commedia all’italiana, sia il romanzo di Collodi. Pensa a I soliti ignoti o al Sorpasso: un colpo finito male e un viaggio che è un appuntamento con la morte».
Gente che ridendo o facendo ridere va contro la legge.
«Disubbidisce, appunto».
Sei attratto da tutto ciò che non ha centralità.
«È il magnetismo che in me suscitano i margini della vita, i suoi scarti».
Fin dall’esordio, no?
«È una costante che si ripete dal Poema dei lunatici
in poi».
Come ti venne in mente di scrivere quella storia?
«È nata casualmente. Scrissi il primo capitolo in occasione di un convegno che Gianni Celati e Luigi Ghirri avevano organizzato sulla “via Emilia”. Immaginai un uomo che girovagava per la Pianura padana cercando messaggi in bottiglia gettati nei pozzi».
Sei nato a Reggio Emilia?
«Ho trascorso lì la mia adolescenza. Ne conosco pienamente odori, immagini, storie. Si sono impresse come su un’oca di Lorenz».
Come è stata la tua infanzia?
«Attraversata da una timidezza che mi sono sempre trascinato dietro. Il solo gesto dirompente che ricordi fu un tentativo di fuga. Avevo sedici anni, scappai di casa con un amico. Volevamo entrare nella Legione straniera. Viaggiammo in autostop. Era un gennaio freddo e incolore. Immagina cos’erano le strade italiane nel 1959».
Me lo immagino, fin dove arrivaste?
«Avevo letto che l’arruolamento avveniva a Mazara del Vallo. Naturalmente non era vero. Tornammo indietro magri e sfiniti».
E i tuoi?
«Se erano preoccupati lo nascosero bene. Ricominciò il tran tran con mia madre casalinga e volitiva e mio padre avvocato malinconico».
Con chi andavi più d’accordo?
«La mamma proveniva da una famiglia di comunisti. Si diceva che le origini fossero zingare. Un bisnonno con l’orecchino e il cappello a tesa larga, che come mestiere dava i pareri».
Cosa vuol dire?
«Si sedeva fuori dalla porta di casa con la sedia rovesciata e dunque con le braccia appoggiate allo schienale, per vedere la gente che gli passava davanti. Qualcuno si fermava. Parlottavano e generalmente era perché alla fine lui dava il consiglio. Non ne so molto di più. Da parte materna non c’è mai stato il culto del passato. Non quanto percepivo dal lato paterno».
Avevano più cose da raccontare.
«Non lo so. Mia nonna paterna era ebrea. Si chiamava Fuchs, i suoi erano arrivati dalla Boemia. Se fermarono a Conegliano Veneto per poi scendere nella bassa Padania».
Era molto osservante?
«Non ricordo un’attenzione ai rituali. Ma due cose mi colpivano di lei: la tragedia che si leggeva nel suo volto ogni qualvolta sorgesse una pur minima difficoltà o imprevisto; e il bisogno di ricucire tutto il vasto mondo familiare: figli, cugini, nipoti, remoti parenti sparsi un po’ ovunque. Scoprii così di essere un lontano parente di Alberto Pincherle, al secolo Moravia».
E tuo padre?
«Ebbe una vita piuttosto dura. I fascisti lo presero per arruolarlo nella Repubblica Sociale. Riuscì a scappare e andò in montagna con i partigiani. Contrasse la Tbc, ma allora era facile prendersela. Non che avessi un gran rapporto con lui. Anzi furono molteplici gli scontri. Ma oggi scopro che aveva ragione su tutto. Non so se voglia dire che sono invecchiato. Ma è così. Tante cose che allora disapprovavo, comprese quelle della politica, mi tornano sotto una luce diversa nel ricordo delle sue parole».
Che conclusione ne ricavi?
«Lui aveva i piedi nell’Ottocento, un secolo da rivalutare».
Grondante ottimismo.
«Se lo giudichi tanto al peso, come il bollito comprato dal macellaio, allora sì. Ma se ci vai dentro con curiosità, scorgi immense diversità e sfumature. Come fai a valutarlo in blocco? Perfino il più truce positivismo lo puoi interpretare come qualcosa di inquietante. Nietzsche aveva i piedi in più secoli. Ma veniva dall’Ottocento. Così Freud. Così Marx. Perfino Lombroso ha qualcosa dell’extraterrestre. Cosa sarebbe Michel Foucault senza le grandi istituzioni repressive messe in atto nel XIX secolo?».
Ti piace Foucault?
«Mi è piaciuto immensamente. Mi sono laureato con Luciano Anceschi a Bologna con una tesi su Gaston Bachelard, che era un pensatore assai stravagante. Attraverso lui sono arrivato a Foucault che mi ha molto istruito. Quando iniziai il mio insegnamento all’università, lui era lo Zenit. Ma poi la cosa si è ridimensionata».
Perché?
«Se te lo racconto non ci credi. Per via di un sogno. Ma un sogno ridicolo che se ci penso dico: mi sono bevuto il cervello. Ad ogni modo, sogno di invitare Foucault a tenere un corso a Bologna. Era nota la sua omosessualità. Nel sogno vedo quest’uomo inconfondibile che mi mette alle strette: se cedere alla sua corte, compiacerlo e fare bella figura oppure respingerlo. Mi sveglio e da quel momento ho lasciato perdere i suoi libri. Dopo un po’ chiusi anche con l’università. Non volevo essere specialista di qualcosa. E fu in quel preciso istante che mi dedicai alla narrativa».
Come una via di fuga?
«Fuga no, non avevo tormenti, né dolori sublimi da soddisfare. C’era solo il piacere di trasformare delle anonime utilitarie in macchine volanti».
E nella Bologna degli anni Settanta chi vedevi?
«Anceschi di tanto in tanto. Fu lui ad accogliere sul Verri le mie prime prove narrative, che erano un po’ degli scherzi. Celati, qualche scrittore o poeta locale. Non è che amassi la vita di osteria. Ci andavo, ma subito dopo mi sarei suicidato. Tornavo a casa istupidito e depresso dai rumori e dalle chiacchiere, dal troppo vino. Discorsi infiniti che restituivano una vita da vitelloni, un po’ come quella raccontata da Fellini».
Fellini lo hai conosciuto bene?
«Rimpiango la sua straordinaria empatia. Non mi sentivo in soggezione con lui. Mi piaceva che al fondo fosse rimasto un romagnolo con quella voce in falsetto. Mica come quei registi che una volta giunti a Roma immediatamente parlano in modo gutturale e greve».
De “La voce della luna” che cosa pensi?
«Secondo me fu un film sulla vecchiaia. Percepiva quella condizione
anche con un fondo di comicità. A volte ho paura, così mi disse, di avere addosso l’odore dei vecchi».
Secondo te cos’è la vecchiaia?
«Mi fai tornare in mente il personaggio interpretato da Paolo Villaggio che si accorge di essere invecchiato nel momento in cui vede che il mondo tutto intorno è cambiato e gli vengono le paranoie perché non lo accetta».
Questa è la vecchiaia?
«Sennò cos’è? Ti modifichi e non ti rassegni. Più invecchi e più passi da una solitudine all’altra. Ti confesso che non auguro a nessuno di andare in pensione troppo presto».
Avverto un senso di infelicità.
«Sono stato moderatamente infelice anche se in certi momenti mi sarei sparato un colpo di rivoltella. Due libri mi hanno aiutato: Il manuale di Epitteto e I Pensieri di Marco Aurelio».
Ti piace lo stoicismo.
«Il cristianesimo, come parecchi secoli dopo il comunismo, basava tutta la sua predicazione sulla logica della promessa. Lo stoicismo è il contrario: non svalutava il tempo che si viveva. Forniva l’idea di un presente pieno. Dove anche la tua infelicità aveva un senso. Mi piace il mondo antico perché sapeva stare nelle cose senza l’ossessione di dover chiarire tutto. Ne La galassia dei dementi mi pongo il problema di come faranno gli alieni a comunicare con quelli di giù. E alla fine ho capito che l’incomunicabilità come il fraintendimento sono le due grandi prerogative umane. Se ce le togliessero, addio civiltà, addio libri, addio tutto».
Ci credi agli alieni?
«Non esageriamo. Però mi piacciono. Sono un po’, se vuoi, come i personaggi che di solito bazzico. Poi, ho letto abbastanza di ufologia per entrare dentro a certi meccanismi mentali. E mi sono accorto che l’ufologia è la scienza della certezza infondata. Gli ufo hanno sostituito le apparizioni mariane. Per uno scrittore è eccitante questa specie di illusione».
Eccitante perché?
«Ti mette di fronte all’incomunicabile. È un’esperienza che accade più di quanto non immaginiamo. Pensa alle formiche. Condividiamo con esse il settanta per cento del Dna. Ma sono come degli alieni. Possiamo fare delle ipotesi, studiarle, comprenderne il comportamento. Ma con una formica non comunichi. Allo stesso modo non ho difficoltà a immaginare che possano esistere altri pianeti con della vita. Ma non ci sarebbe modo di comunicare. Salvo cercare di includere questa vita nel genere della fantascienza».
Potenza della letteratura.
«Ma sì, alla fine la letteratura, un po’ come la musica leggera, deve toccare le parti affettive del cervello».
Ti piacciono le canzoni?
«Le amo e non capisco l’ostracismo intellettuale di alcuni. A me piacciono le voci graffiate. E poi una canzone riuscita dà il senso del transitorio, qualcosa che ti getta nella bella malinconia. Ascolto la classica e l’opera. Ma hanno un’altra funzione: elevano lo spirito. Non ho sempre voglia di elevarmi. Del resto non avrei scritto quello che ho scritto se non avessi nutrito non dico la pretesa, ma la speranza che il mondo sia più interessante visto dal basso».